Continua la nostra breve, ma intensa serie di saggi sui personaggi “classici” del cinema horror. E relativi “divi”…
(di Walter De Stradis) Il primo “Dracula” ufficiale dello schermo (escludendo il Max Schrek del celeberrimo “Nosferatu” di Murnau, che era un apocrifo) –lo sanno pure le pietre- è stato Béla Ferenc Dezső Blaskó, attore ungherese trasferitosi (rocambolescamente) negli USA, che a un certo punto della sua carriera prese il cognome d’arte di Lugosi, forma aggettivale di Lugos, il nome della sua città d’origine (facente parte in realtà della Romania). Bela Lugosi, dunque, è stato colui che -a partire dal film del 1931 (il leggendario “Dracula” di Tod Browning, prodotto dalla americana Universal)- ha dato forma e sostanza all’ “identikit” del Conte Vampiro, così come lo conosciamo tutti, e che appare dappertutto, dalle scatole dei biscotti a quelle dei preservativi (e che è molto diverso da quello descritto nel romanzo originale di Bram Stoker).

Per la Universal, il “Dracula” del 1931 fu un grande successo, anche inaspettato nelle proporzioni, e siccome l’appetito vien mangiando (o in questo caso, bevendo), a pochi mesi di distanza si volle bissare il colpo con l’uscita della riduzione del “Frankenstein” di Mary Shelley. E la parte del Mostro fu affidata, ovviamente, a Bela Lugosi, ormai sulla cresta dell’onda horror.
Ma il successo, com’è noto, può dare alla testa, e Bela cominciò a fare i tipici capricci da star, visto e considerato che nel film le sua fattezze sarebbero state nascoste da un trucco molto pesante e invasivo (trattandosi di dover dare corpo a un energumeno fatto di quarti di cadavere), e per di più, che il Nostro si sarebbe dovuto limitare a ringhiare e a bofonchiare (come già accaduto con “Dracula”, la versione cinematografica del personaggio in questione non era ricavata direttamente dal romanzo originale, bensì dall’intervenuta versione teatrale, con relative, clamorose differenze). E nonostante l’immigrato Bela Lugosi non avesse quel che si dice la giusta padronanza dell’Inglese (né l’avrà mai), ugualmente non ne volle sapere di ridurre la sua recitazione ai versi che avrebbe potuto fare un qualsiasi scimmione. E così la parte andò al semi-sconosciuto Boris Karloff. E fu la fortuna di quest’ultimo. E la sfortuna di Bela.
Trattandosi di film dell’orrore con morti e resuscitati, sembra infatti più che mai calzante il vecchio adagio latino “mors tua, vita mea”: rifiutando il ruolo a pochi giorni dall’inizio delle riprese, Lugosi diede involontariamente il via a una carriera prestigiosa e ricca di soddisfazioni per l’attore che lo sostituì, e –dal canto suo- scese per lo meno di un gradino nel podio degli attori horror più amati e pagati. Podio che per un lungo periodo sarebbe stato dominato appunto dal “gigante” Karloff.
E sebbene la “Creatura” che Karloff interpretò nel “Frankenstein” del 1931 (diretto dal sensibile e talentuoso regista inglese James Whale, che successivamente sarebbe stato uno dei primi gay dichiarati della macchina hollywoodiana, non senza subirne le conseguenze), fosse caratterizzata da un trucco molto invadente (quello con la celebre testa “a frigorifero”, con cicatrici sulla fronte ed elettrodi sul collo, ideato dal regista e dal truccatore Jack Pierce), l’attore gli infuse un’anima che bucava letteralmente lo schermo: quella di un essere mostruoso e infelice, terrificante e tenero, innocente e dannato, costretto a una rapida conoscenza di un mondo che non capisce e che lo respinge, nonché a una vertiginosa perdita dell’innocenza, culminante col delitto.
Come si diceva, da quel momento in poi la carriera dell’attore inglese (da tempo residente in America) decollò, trasformandolo nella più fulgida star del cinema horror, al punto che, nei titoli di testa e nella cartellonistica, sovente ne appariva soltanto il cognome d’arte, “Karloff”, a mo’ di garanzia per lo spettatore, come sarebbe accaduto decenni dopo con le stelle del cinema d’azione Schwarzenegger (Arnold) e Stallone (Sylvester).
E Bela Lugosi?
Da quel gran rifiuto in poi, l’attore venne invece spesso indicato con la parola “Dracula”, interposta tra nome e cognome, come se fosse l’unica maniera per identificarlo agli occhi dello spettatore. Infatti, mentre al (più pagato e famoso) collega britannico vennero subito assegnati altri ruoli iconici, come quelli della Mummia o del diabolico dottor Fu Manchu, Lugosi dovette accontentarsi di essere sempre il secondo nome sul manifesto nei numerosi film (della stessa Universal) che condivise con Karloff, nonché di fare il protagonista in una lunga serie di produzioni minori, ma senza tuttavia poter mai dare nuovamente corpo a un personaggio iconico come Dracula (se si fa accezione delle relative “clonazioni”).
Ironia della sorte, per il resto della loro vita, forse anche a causa del peso derivante dal trucco e da tutto l’armamentario e gli sforzi sul set di alcuni dei loro personaggi, entrambi soffrirono di lancinanti dolori reumatici. Il che portò Karloff a finire i suoi giorni (morì nel 1969) su una sedia a rotelle, dopo aver conosciuto comunque una seconda (terza, quarta) stagione di notorietà grazie ad alcuni titoli della AIP ispirati all’opera di Poe, e Lugosi a diventare dipendente dalla morfina. E fu la rovina. Piuttosto macabre, a guardarle ancora oggi, le foto del cadavere dell’attore, morto nel 1956, ritratto nella bara col “costume” di Dracula.
Tornando tuttavia alle scelte artistiche dell’attore ungherese, e riallacciandoci all’ingarbugliata “matassa” di ruoli cinematografici che a un certo punto iniziarono a intricarsi tra loro, per farla molto breve, andò a finire che colui che inizialmente aveva rifiutato il ruolo del Mostro di Frankenstein, non ritenendolo adeguato allo “status” improvvisamente acquisito, alla fine dovette “accontentarsi” di interpretare (nel film “Il figlio di Frankenstein” del ’39 e nel seguito “Il terrore di Frankenstein” del 1942), prima soltanto il servo gobbo dello scienziato pazzo (il proverbiale Ygor, che sarà poi parodiato da Marty Feldman come “Aigor” nel celeberrimo film di Mel Brooks del 1975), e poi la Creatura vera e propria, nel già citato “Frankenstein contro l’Uomo Lupo” del ‘43. E questa volta senza potersi lamentare di alcunché, ovviamente. Tanto meno della (non certo elevata) paga.