Da oggi iniziamo a pubblicare su Cinecorriere una breve, ma intensa serie di saggi sui personaggi “classici” del cinema horror, tra originali, imitazioni e parodie. Iniziamo -e non poteva essere altrimenti- con alcune “varianti” del celeberrimo “Frankenstein” di Mary Shelley.
(di Walter De Stradis) Il leggendario Boris Karloff, che insieme all’americano Vincent Price è forse l’unico vero (e soprattutto duraturo) “divo” immediatamente riconoscibile (dal grande pubblico) che il cinema horror abbia mai avuto, si sganciò dal ruolo della Creatura dopo il terzo film della serie, uscito nel 1939, e intitolato “Il figlio di Frankenstein” (che a sua volta aveva fatto seguito a “La moglie di Frankenstein”, del 1935 e naturalmente all’originale di James Whale, il “Frankenstein” del 1931).
È dunque immaginabile il clamore che, vent’anni dopo, accompagnò la notizia dell’uscita di un ulteriore lungometraggio col noto attore che tornava, ormai anziano, “sul luogo del delitto”.
Il titolo in questione è “Frankenstein 1970” (uscito nel 1958); diretto da Howard W. Koch, trattasi di una produzione indipendente americana, pertanto al di fuori del circuito e della “continuity” Universal. La cosa interessante è che in questa sede Boris Karloff non interpreta il Mostro, bensì, una volta tanto, il suo artefice, ovvero un particolare Victor Frankenstein, discendente del personaggio originale. La storia, come suggerisce il titolo, è ambientata nel futuro (quale poteva essere considerato allora il 1970), e ci narra di questo “mad doctor” (si tenga conto che, anni addietro, lo stesso Karloff aveva tipizzato con successo numerose varianti della figura dello scienziato pazzo) a cui viene offerta un’occasione piuttosto ghiotta, per uno che di cognome fa Frankenstein (e che ha nel suo DNA certe “inclinazioni”). Una troupe cinematografica, infatti, si reca nel suo sinistro maniero (come dire, Cappuccetto Rosso che va nella tana del Lupo) per girare un documentario sull’illustre antenato del padrone di casa, proprio quel famigerato Barone che in una notte di tregenda, fra lampi e tuoni, aveva dato vita alla sua terribile Creatura (le cui spoglie, guarda un po’, sono ancora sepolte nelle segrete del castello). Aggiungiamo soltanto che Karloff dà ulteriormente prova, questa volta dall’altro lato del tavolo operatorio, di sofisticate doti attoriali, consegnandoci un dottor Frankenstein (che coi capelli a spazzola bianchi e le cicatrici in faccia dovrebbe egli stesso ricordare il Mostro) particolarmente intenso.
La stessa trovata di abbinare al titolo “Frankenstein” una data futuristica viene poi adottata anni dopo dai produttori di un ulteriore film indipendente (uscito nel 1972); e poiché trattasi questa volta di una produzione italo-tedesca, per la regia di Mario Mancini (operatore di macchina qui al suo unico film!), verrebbe facile dire che siamo decisamente dalle parti del trash nostrano, al solito pecoreccio.
Ma andiamoci piano.
“Frankenstein 80”, infatti, pur essendo il parto di una produzione che più scalcagnata non si può (basti pensare che la vicenda è ambientata in Franconia, ma è girata a Roma, con tanto di prostitute che parlano in romanesco!), ha sicuramente più di qualche freccia al suo arco, nonostante la fama di “film più brutto in assoluto” mai ispirato all’opera di Mary Shelley. Quest’ultima etichetta, riscontrabile anche in alcuni saggi critici (scritti dai soliti soloni che certi film non li guardano nemmeno) è quantomeno ingenerosa, specie se il pensiero va a certi “capolavori” come “Frankenstein alla conquista della Terra” (film nippo-americano del 1965), che praticamente è un Frankenstein contro Godzilla, oppure all’ancora più improbabile “Jesse James Meets Frankenstein’s Daughter” (USA, 1966), in cui il noto bandito del West incontra la nipote (che nel titolo, tra l’altro, è invece indicata come “figlia”!) del Barone Frankenstein. Tornando però al vituperato “Frankenstein 80”, ci accorgiamo che anche la trama, per quanto assurda, mal recitata e piena di buchi, ha tuttavia un suo perché: il dottor Otto Frankenstein, ennesimo parente del barone originale (discendenza ormai diventata un cliché), in uno scomparto segreto dell’ospedale in cui lavora, ha anch’egli creato il suo bravo Mostro (che ha ribattezzato “Mosaico”) con pezzi di cadavere, ma questi, pur animatosi, soffre di crisi di rigetto. In attesa che il suo creatore trovi la soluzione al problema, è dunque la Creatura stessa a mietere vittime in città, alla cerca di organi freschi per il proprio corpo, dando vita a una folle e sanguinaria mattanza. La cosa migliore del film sembra essere il look di questo particolare Mostro di Frankenstein, le cui fattezze (con tanto di suture sanguinolente ben in vista), sono curate addirittura da Carlo Rambaldi (non ancora famoso a livello internazionale). Si salvano poi, in un mare di personaggi di contorno che sembrano partecipare a una recita scolastica, l’arcigno dottor Frankenstein interpretato da Gordon Mitchell (una vera faccia di pietra, già campione di culturismo, che per il cinema di genere nostrano era stato anche Maciste), e il suo Mostro, sempre triste e arrapato (che per tutto il film riesce a dire soltanto “Gh!”), a cui ha prestato il volto lo sfortunato Xiro Papas, pseudonimo di Ciro Papas, attore che sarebbe morto anni dopo (nel 1980) in un incidente automobilistico sull’autostrada A13, nei pressi di Padova.

Curioso notare che lo stesso Papas, un paio di anni dopo “Frankenstein 80”, era apparso in ulteriore film di co-produzione italiana dedicato all’universo narrativo creato da Mary Shelley (anche se non nel ruolo del Mostro). Si tratta del dimenticabile “Terror! Il castello delle donne maledette” (1974, per la regia di Dick Randall), in cui c’è addirittura l’altero Rossano Brazzi a interpretare il dottor Frankenstein, qui declassato, non si sa perché, da “barone” a “conte” (che dire, una “marchetta” cinematografica, se ben pagata, non si rifiuta mai!).
Spiace infine segnalare che anche “Frankenstein all’Italiana” (tristemente noto anche col titolo alternativo di “Prendimi, straziami, che brucio di passion!”), film del 1975 diretto da Armando Crispino, sia alla fin fine una ciofeca pressoché inguardabile. Spiace innanzitutto perché si trattò di un tentativo (“all’italiana”, appunto, forse troppo), di bissare il successo dello strepitoso ed esilarante “Frankenstein Junior” di Mel Brooks con Gene Wilder, ma anche perché l’idea di far indossare i panni della Creatura all’irresistibile Aldo Maccione (amatissimo in Francia, ove è famoso per la sua personalissima camminata da “marpione” italiano, tanto da essere ribattezzato “Aldo la Classe”) poteva rivelarsi uno spunto molto interessante. Ahinoi, il film –che pur conta su ulteriori “garanzie” della commedia all’italiana, quali Anna Mazzamauro, Alvaro Vitali e il “pasoliniano” Ninetto Davoli- si trascina davvero stancamente senza suscitare mai un sorriso, neanche a mezza bocca.