(di Walter De Stradis) Due agenti segreti (uno con bombetta e ombrello e l’altra strizzata in una tutina aderente) che si aggirano in una Londra di cartone (“Agente Speciale”); due inguaribili playboy, l’uno inglese, l’altro americano, costretti a fare i detective da un giudice in pensione (“Attenti a quei due”); un sedicente e misterioso “Dottore” che viaggia nel tempo e nello spazio raddrizzando torti, a bordo di una cabina telefonica della polizia (“Doctor Who”); un altro agente segreto, dimissionario, ma prigioniero su un’isola misteriosa, che cerca disperatamente di fuggire (“Il prigioniero”); una speciale agenzia che lotta all’insaputa del mondo contro il rischio di un’invasione aliena (“U.F.O.”): si tratta delle serie principali (più un’infinità di altre) di cui si è occupato il saggista e scrittore Marco Donna (autore anche di alcuni romanzi di spionaggio, con lo pseudonimo di Darko Bay), nel suo ultimo volume, dedicato alle produzioni televisive britanniche che hanno fatto storia: “Swinging Series” (Edizioni Scudo).

D’altronde, Roger Moore e Tony Curtis (foto sopra) che se la spassano sulla Costa Azzurra facendo i giustizieri, così come Patrick McGoohan inseguito da una enorme palla bianca mentre tenta di fuggire, e persino Tom Baker (pur nella sua breve apparizione sui canali Rai negli anni Ottanta) con la sua chilometrica sciarpa multicolore e la sua cabina blu, sono personaggi marchiati a fuoco in un certo immaginario collettivo.    

Ne abbiamo parlato con l’autore.

A distanza di 50/60 anni (e di conseguenza in presenza di ritmi più lenti, effetti speciali datati e dialoghi più “affettati” rispetto a oggi), le serie principali da lei descritte hanno ancora un fascino innegabile. C’è un fattore “X” che le accomuna?

L’indagine per trovare una risposta a questa domanda è un po’ il senso di questo libro. Il testo tratta delle produzioni tv britanniche dagli anni Cinquanta a oggi, ma è innegabile che gli anni Sessanta siano stati il momento d’oro (laddove per le produzioni italiane avrei detto gli anni Settanta, e per quelle USA gli Ottanta). Non esiste però a mio avviso un unico fattore “X”, bensì una somma di elementi. In effetti, se pensiamo alla Londra degli anni Sessanta, il momento d’oro c’è stato in vari campi: la musica, la moda, il design, il cinema, la letteratura, la libertà sessuale. Se proprio dovessi indicare un fattore “X”, beh, l’ho messo nel titolo: è quello “Swinging”, un termine intraducibile. È la “Swinging London”, ragazzi, irripetibile. In quel momento nella capitale britannica c’era tanta creatività, forse dovuta al boom economico successivo ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, la spensieratezza. E’ innegabile che sia stato un decennio importante per la cultura british. Ah, sì, poi c’era il trionfo del Camp. Ecco, forse il secondo fattore “X” potrebbe essere quella filosofia d’arte pop che rendeva possibile fondere insieme elementi fantastici in contesti reali. John Steed ed Emma Peel (della serie “Agente Speciale” – ndr) che lottano contro gli “Uomini Cyber”, che passeggiano tranquillamente per le strade di Londra, una Londra senza traffico. Questa sì che è fantascienza. Con le case fatte di cartone, ma che non turbavano per nulla. Pensiamo anche a“Il Prigioniero” (protagonista della serie omonima – ndr), intrappolato in un villaggio da cui non si può uscire, e che è inseguito da palle di plastica bianca. In questo contesto di eccesso di creatività, c’era una sana concorrenza tra la tv pubblica, la Bbc, e le televisioni private, un altro elemento importante. C’erano soldi per tutti, e in questo modo la creatività e la sperimentazione venivano premiate.

Nel caso di “Doctor Who”, guardando già i primi episodi degli anni 60 (specie il primo scontro con i Dalek), mi sono chiesto sei bambini inglesi di allora (a cui era comunque destinata in primis la trasmissione) non fossero in qualche modo “più avanti” rispetto ai nostri: il mood della serie era infatti abbastanza cupo e drammatico…

Partiamo col dire che io ho ricordi drammatici di “Doctor Who”, risalenti agli anni Ottanta; piaceva a mio padre, e io bambino mi coprivo gli occhi per la paura. Però volevo vederlo, nonostante quella parte di horror che era già roba un po’ più da adulti, rispetto agli esordi degli anni Sessanta. Non so rispondere alla sua domanda, non essendo né uno psicologo infantile né tantomeno uno studioso di tradizioni per bambini. Ma mi viene da pensare che possa trattarsi proprio di una tradizione britannica, nordica, presente già nelle favole per bambini, che erano propense a non nascondere la violenza e la paura. Forse la tradizione mediterranea è più protettiva con i bimbi: ci sono favole cruente anche da noi, ma forse andando più a Nord la percentuale è più alta, non a caso alcune favole nordiche sono impressionanti anche per un pubblico adulto. Probabilmente è questa la differenza tra noi e quel mondo: non è una differenza di maturità. Resta il fatto che, grazie a questo, pur nascendo per un pubblico di ragazzini, il prodotto “Doctor Who” è piacevole ed attuale anche per un pubblico adulto ed è una serie longeva che dura ancora oggi.

Nel caso di serie fanta-spionistiche come “Agente Speciale” o “Il Prigioniero”, ritroviamo stili, tematiche e suggestioni che –come fa notare giustamente nel libro- hanno influenzato anche gente come David Lynch e altri: esiste qualcosa di coevo e in qualche modo paragonabile in Italia? Anche la Rai era impegnata in numerosi sceneggiati che hanno fatto storia…

In questo momento sto lavorando a un volume sulle serie americane, ma sto anche pensando di chiudere la trilogia con un saggio sulle produzioni europee ed italiane in particolare. La tv italiana ha tanto da dire, anche se non credo che David Lynch sia stato attratto da “Don Matteo” (che poi avrebbe anche dei pregi). Fino agli anni Settanta ci fu molta sperimentazione anche in Italia, anche nelle produzioni in collaborazione con Francesi e Tedeschi. Di paragonabile ad “Agente Speciale” e “Il Prigioniero” –ed è forse la risposta più ovvia- c’è “Il Segno del Comando”. Anche il “Pinocchio” di Comencini era un’opera d’arte, con tanta fantasia che a volte lo avvicinava proprio al Fantasy; ovviamente stiamo parlando di un genere diverso, ma aveva elementi caratterizzanti molto forti e penso che abbia formato molti che poi hanno lavorato in televisione. Sa che le dico? Anche la serie su Ligabue di fine anni Settanta era clamorosa, trattava anche elementi difficili come l’emarginazione di chi è diverso…e credo avesse anche qualcosa de “Il Prigioniero” al suo interno.

Ne approfitto per farle una domanda sullo James Bond realizzato (in parte) a Matera, visto che lei se n’è occupato in un libro sulle locations bondiane (“James Bond: Missione Italia”, Edizioni il Foglio). Qui da noi c’è stata anche una polemica –che trovo giusta- per come è stato rappresentato nel film un certo Sud (pecore per strada e processioni con donne vestite di nero). Cosa ne pensa?

La risposta è sì, c’è una caratterizzazione che forse è anche un po’ razzista. Ma pensiamo un attimo al contesto. Prima di tutto 007 nasce nei romanzi di Ian Fleming degli anni Cinquanta, e sottolineo Cinquanta; lui era un autore geniale, un gran conoscitore del mondo, e cercava di spiegarlo al popolo (stiamo non a caso parlando di “letteratura di genere”, qualcosa di facilmente capibile, di popolare). E usava semplificazioni razziste: gli Italiani erano tutti mafiosi, i Bulgari tutti assassini stupidi, per non parlare delle persone di colore ad Harlem (basti leggere “Vivi e lascia morire”), e delle donne…beh, lo sappiamo. Nel film “Goldeneye” Bond viene etichettato da “M”, il suo capo, come un “dinosauro misogino e sessista”. Ecco, di questo stiamo parlando. Per fortuna dagli anni Cinquanta a oggi le cose sono migliorate in fatto di “cultura di genere”, almeno un po’. Ma c’è comunque una seconda considerazione da fare: nella sceneggiatura di “No Time to Die” la città che si vede non è Matera, ma “Civitalucana”, un immaginario borgo antico sul Mediterraneo ove far vivere l’incubo romantico ai due protagonisti, in una sorta di viaggio nel tempo. Nella sceneggiatura l’idea era proprio questa, anche nei costumi, splendidi, dello stilista Massimo Alba -che io adoro- con quel design antico che proprio rende l’idea di un ritorno agli anni Cinquanta e Sessanta, in quella parte di film. Il discorso vale anche per le automobili, in quanto 007 utilizza la vecchia Aston Martin. C’era poi anche un interesse a evidenziare un forte contrasto fra quelle scene antiche e solari e il modernismo di quelle, più buie, del finale del film. “Civitaluana” non esiste, è un borgo sul mare, e a Matera –come sappiamo- il mare non c’è: infatti quello del film è un paese “Lego”, fatto con pezzi anche di Gravina di Puglia, Sapri e Maratea. Ecco, i Mediterranei, agli occhi degli sceneggiatori britannici, sono, sì, “semplificati”, concordo. Comunque posso citare dei film italiani di genere in cui abbiamo rappresentato i Britannici come stupidotti che bevono tè e si picchiano allo stadio. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! In ogni caso, quella “semplificazione” (che come dicevo era un’idea di immagine retrò che volevano dare), ha comunque portato turismo ai comuni citati e secondo me è una cosa positiva, che rende tutto più accettabile, no?