Mi permetto due considerazioni, come premessa.
La prima riguarda l’ironia della sorte: un disco che scopro in queste settimane, anche se uscito qualche mese fa (a febbraio) da un’Artista che si chiama Giorgia e si intitola Sono, non poteva passarmi, anche se la sua autrice Giorgia Zangrossi certo allora non aveva pensato a certe coincidenze, inosservato.
Quindi, contro qualsiasi sospetto, questo non è un colpo di mano a scopo pubblicitario, anche perché non siamo in quell’ambito musicale in cui imperano Amadeus o Fedez, che di scoop e trovate fanno merce di scambio quotidiano con il pubblico.
Quindi è evidente che Giorgia Zangrossi questo titolo lo ha riflettuto, poi riflettuto ancora e alla fine abbia deciso che doveva raccontare qualcosa.
L’altra considerazione è personale -e non è che stia cercando visibilità per me stessa: sono anziana. O diversamente giovane. All’ascolto di Sono, la rievocazione di un tempo di militanza in radio cosiddette “libere”, è stata fulminea.
Avere sedici anni nel periodo in cui la canzone d’autore era oltre un buon trenta per cento della programmazione radiofonica giornaliera, ti forma un certo modo di sentire. La famosa “scuola romana” e la corrente che percorreva il dorso dell’Italia come la catena appenninica, da Genova a Crotone, pressappoco, era forte e percepibile dovunque.
Credo sia per questo che al primo ascolto del brano di apertura di questo album della cantautrice torinese, ha immediatamente fatto eco la voce di Eugenio Finardi.
Ma, come dicevo, questa è una premessa.
Nel 2022 un disco cantautorale non è certo un caso isolato, se pensiamo ai tanti nomi che fanno ancora musica italiana, sebbene nella maggioranza dei casi i nomi siano maschili.
Nel caso di G.Z., più che in altri esempi, però, è il filo che lega saldamente la tradizione della scuola cantautorale alle nuove generazioni, a determinarne un tratto distintivo, che caratterizza il suo lavoro e lo rende speciale. Lieve, ma non superficiale. Elaborato, ma non ridondante. Quindi equilibrato, nella totalità delle tracce che compongono l’album.
Sono ha una dimensione spaziotemporale particolarmente piacevole. La leggerezza dei testi e la scelta di un arrangiamento che lega le parole senza soffocarle, ma sostiene il racconto delle canzoni, hanno una particolare armonia. La voce artistica è curata e senza manierismi, duttile sia nell’interpretazione dei brani scritti per lei da Gigi Marras, che è anche l’arrangiatore di questo disco, sia nelle canzoni uscite dalla propria penna.
L’ascolto più attento mi porta a considerare la poliedricità di Giorgia. Non ho il piacere di conoscerla personalmente, ma nel suo mondo musicale si intravvedono le sfumature di una palette che non si può non conoscere. Rimandi branduardiani in quelle che sembrano piccole favole. Accordi e liriche che piacerebbero a Guccini. Passaggi che troverebbero serena collocazione in un concerto di Niccolò Fabi.
Non stupisce che il risultato sia questo, se consideriamo il precedente album Canzoni addosso, dedicato alla ricerca di quanto hanno scritto i nostri cantautori più importanti. Non stupisce, nella sensibilità artistica che Zangrossi non dissimula, la scelta di un cameo inaspettato, quello del pezzo I nidi degli uccelli, scritto da Paolo Capodacqua, dedicato alla memoria dei bambini morti nei campi nazisti, a cui la cantautrice rende omaggio.
Una nota che aggiunge raffinatezza è anche, senza dubbio, quel suo “dialogare” con la chitarra, un ascolto a cui ci ha abituati gente come Joni Mitchell o James Taylor dai palchi americani, ad aggiungere un deciso tocco di respiro più internazionale. E se, come dice lei stessa, ai tempi di certe canzoni non era ancora nata, deve aver respirato un sacco di musica dalla culla.
Sono ingredienti che bisogna saper miscelare al proprio stile, per rendere un disco gradevole, per non proporre una vetrina di memorabilia senza nessuna novità.
Un album, questo di Giorgia Zangrossi, che si inserisce a pieno diritto, per stile e contenuti, nella discografia edita da Storie di Note.
By Anna Crudo