(di Giorgio Cavagnaro) Pare che Ingmar Bergman abbia dichiarato che i film di Michelangelo Antonioni lo annoiassero. Tutti, tranne La Notte e Blow up, per lui due capolavori.
I due maestri, è noto, non si amavano. La loro vita finì, scherzi del fato, a poche ore una dall’altra, nel 2007, lasciando un vuoto enorme nel panorama cinematografico mondiale. Maggior rilievo assume perciò il giudizio dello svedese sullo straordinario film che abbiamo appena rivisto in tv.
Blow up, più di ogni altra opera dell’epoca (è del 1966), restituisce la percezione viva del cambiamento epocale partito dalla swinging London nei primi anni Sessanta, e formativo delle generazioni successive, rendendo in sostanza noi tutti quello che siamo, nel bene e nel male.
Il senso di ribellione del fragile e cinico fotografo Thomas, un David Hemmings semplicemente perfetto, è rappresentato dalle sue enigmatiche corse per una città bipolare, in bilico fra tradizione e novità folgoranti. Accompagnano Thomas nella sua febbrile ricerca (c’è di mezzo anche un giallo, appena accennato e irrisolto, come ogni elemento del film) icone d’epoca tra le più significative e brillanti, come Vanessa Redgrave, gli Yardbirds di Jeff Beck e Jimmy Page, Sarah Miles e Verushka, fino all’esordiente ninfetta Jane Birkin.
Lo spirito del tempo è addirittura fisicamente presente, impersonato da una jeep sgangherata, carica di giovani irridenti e spensierati in giro per Londra a gran velocità, senza meta e senza bandiera, come la banda, assai più inquietante, di rombanti centauri che appare nel finale di Fellini Roma. Ma mentre con Fellini (siamo già nel 1972) l’ubriacatura ingenua è già superata, l’incontro tra i ragazzi della jeep e Thomas nel severo campo da tennis genera una partita senza palla, surreale quanto lo erano la speranza e le illusioni di quegli anni meravigliosi.