Il giornalista Edoardo Nespeca intervista Marco V. Ambrosi:  insegnante di italiano e storia, musicista e operatore culturale, egli ha curato per Aliberti Editore L’altro allo specchio e per Rubbettino Editore Ad esempio a me piace. Un viaggio in Calabria e Musica contro le Mafie. Inoltre ha curato per il Mucchio Selvaggio le compilation omaggio ai cantautori italiani. Chitarrista e compositore, suona nella band Nuju, con la quale ha pubblicato cinque album e gira per l’Italia e per l’Europa. Vincere perdendo (Leonida edizioni) è il suo primo romanzo e ha ricevuto la menzione speciale alla seconda edizione del “Premio Rocco Carbone”.

1)Com’è nata in te l’idea di questo libro? L’avevi già coltivata dentro di te e hai trovato lo spunto giusto per intraprendere la stesura, oppure hai avvertito un bisogno espressivo legato a qualche evento in particolare? E ti sei divertito, nello scriverlo?

Prima di compiere quarant’anni, avevo deciso che, dopo questa data simbolica, avrei cominciato a scrivere un romanzo. Ho sempre scritto: canzoni, racconti, ma non mi ero mai misurato con la narrazione lunga. La storia mi appartiene da diverso tempo. Sono abituato a raccogliere idee e metterle da parte, lasciandole crescere nel mio intimo, fino a quando sono pronte per venire fuori. Le vicende di “Vincere perdendo”, sono ispirate alla mia passione per il calcio e a ciò che lasciato in me far parte di una squadretta nei primi anni ’90 in provincia di Vibo Valentia. Prendendo spunto da ciò che ho vissuto, ho raccontato una storia che potesse essere staccata dal contesto personale, ma all’interno ci sono le caratteristiche di tante persone che hanno accompagnato la mia formazione. Scrivere il romanzo è stato divertente e sorprendente, perché quando sentivo dire agli scrittori che i personaggi ti vengono a trovare e prendono vita, pensavo fosse un vezzo, invece è successo anche a me. Ogni tanto mi trovavo nella stanza con i protagonisti della storia che spingevano per avere più spazio tra le pagine: dargli la giusta collocazione perché nessuno se la prendesse male è stato molto divertente.

2) Nel tuo lavoro, sei costantemente a contatto con i ragazzi della scuola. In che modo la tua professione ti ha aiutato nella stesura, se lo ha fatto? E a quale genere di lettore pensavi durante la stesura?

Stare a contatto con ragazze e ragazzi che, quando arrivano il primo anno a scuola, sono ancora un po’ bambini e quando escono sono già donne e uomini pronti alla vita, mi fa capire come cambiano le cose intorno a noi. Soprattutto mi dà consapevolezza di come cambiano i tempi e gli strumenti mentre i sentimenti di una donna o un uomo in formazione, restano sempre gli stessi, da millenni. L’amore, le ribellioni, le illusioni, le disillusioni, i sogni, la ricerca del proprio posto nel mondo, sono dentro ogni studentessa e studente che ho incontrato in questi anni. Io ne faccio tesoro per poterli capire al meglio e perché riescano a esprimere sempre le proprie idee e le proprie emozioni. 

Sicuramente, scrivendo, ho pensato anche a loro, proprio perché si tratta di un romanzo di formazione, ma non c’è un lettore specifico cui mi rivolgo: mi sono arrivati riscontri di lettura sia da adolescenti che da persone anziane. Ho sempre creduto che esistono storie solo per adulti, ma non storie solo per bambine e bambini. Penso a Calvino e ai suoi “Marcovaldo” e “I nostri antenati”, ma anche più banalmente al “Piccolo principe”, si possono leggere a ogni età.

3) Un’altra domanda, forse un po’ ingenua, mi viene poiché, pur se il protagonista del romanzo è Davide, mi sono auto-indotto a credere che ci fosse molto del tuo vissuto, della tua identità, dietro ad esso; similmente ad Anguilla per Pavese, nel suo La luna e i falò (citato già in epigrafe, tra l’altro), pur non trattandosi di un romanzo compiutamente autobiografico, quanto c’è dell’adolescenza di Marco Ambrosi e dei suoi ricordi legati alla Calabria nelle pagine del tuo libro?

Potrei rispondere come Flaubert, con una delle frasi più citate e abusate dagli scrittori, ma proprio per questo più vera: «Madame Bovary c’est moi». Penso che ogni scrittore si basi su qualcosa di vissuto, per poi modificarlo e renderlo qualcos’altro. Io ho fatto così. Dentro il mio romanzo c’è tanto di me, non solo nella voce narrante di Davide: ci sono vicende simili a quelle che ho vissuto e che poi ho trasfigurato per renderle più interessanti, ci sono insegnamenti che ho ricevuto e che a mia volta vorrei trasmettere, ci sono sensazioni che ho provato e sulle quali ho voluto riflettere. Tutto ciò è la base sulla quale ho costruito la storia, perché penso che per tenere il lettore attaccato alla pagina, bisogna che le vicende sembrino realmente accaduta, poi non importa se è tutta finzione, la magia è crederci mentre si legge. 

4) Nel libro si nota la tua formazione di storico nella puntuale ricerca su una vasta serie di eventi che, qua e là, interferiscono con la quotidianità di Montalbano Calabro in quegli anni: mi riferisco ad esempio alle stragi di stampo terroristico-mafioso, allo scandalo Tangentopoli con l’arresto di Mario Chiesa e le inchieste giudiziarie su Bettino Craxi, al trattato di Maastricht e alla missione italiana in Somalia. Ecco, dietro questi “intermezzi” storici, che ben si integrano con le vicende narrate, si cela anche un attento lavoro storiografico? È risultato difficile? Anche perché immagino che in un romanzo del genere bisogni prestare molta attenzione a non creare un’incongruenza cronologica.

Sono stato molto attento a non sbagliare date ed eventi storici, ma non mi azzardo a dire che ho fatto un lavoro storiografico. Ho cercato tutti i riferimenti basandomi su ciò che ricordavo di quei fatti. È stato utile anche per ricostruire, da un punto di vista distaccato, ciò che avevo visto in tv con gli occhi di bambino. Poi io sono particolarmente affascinato dalle storie che riescono a inserirsi dentro la Storia vera e propria. È bello immaginare la vita di una persona qualsiasi nel momento in cui accade un evento epocale. Un contadino che guarda partire le tre caravelle di Colombo o un bambino che corre per le vie di Parigi mentre i rivoluzionari assaltano la Bastiglia o ancora una mamma che allatta il figlio mentre in tv vede cadere le Torri gemelle. Credo aiuti il lettore a sentirsi vicino ai personaggi.

5) Già dal titolo si può constatare l’ossimoro tra i due termini “Vincere-Perdendo”: in una quotidianità sociale che ci spinge a ricercare il successo whatever it takes (cioè “costi quel che costi” come direbbe forse una nota figura del panorama politico italiano), perdere oggigiorno sembra quasi un atto rivoluzionario. Perché questo titolo? Dalla lettura mi è sembrato di comprendere, parafrasando le parole del Presidente, che pur nella sconfitta si è vincenti quando si riesce a preservare la propria dignità. È corretto?

Il titolo nasce dall’idea centrale del libro, cioè una riflessione sulla vittoria e il successo personale. Sempre di più ci spingiamo verso una società che ci chiede di essere perfetti. Questa condizione fa presa su tutti, dai più giovani agli adulti. Basta guardare le nostre home dei social per rendercene conto. Perché invece non riflettere anche sulle nostre sconfitte, facendoci vedere con le nostre debolezze? L’importante non è né vincere né perdere, ma prendere consapevolezza del proprio posto. Per questo la dignità. Si tratta di un concetto a me caro, che nel libro sviluppo anche grazie alla sequenza finale del film “la grande guerra” di Monicelli o ricordando, come già dicevamo prima, le stragi di mafia dei primi anni ’90, che possono essere considerate simbolo della vittoria della mafia, ma anche l’inizio della lotta civile alla montagna di merda che quest’ associazione a delinquere rappresenta. Ecco, ho citato Peppino Impastato, un altro che sembrava avesse perso ma che oggi ha sicuramente vinto. 

6) Il romanzo ripercorre il biennio ’92-’93 partendo dallo spunto della stagione dilettantistica del Montalbano Calcio ma allargando poi lo sguardo ad includere anche vari aspetti non legati allo sport, come la vita tra i banchi di scuola, le feste e le commemorazioni paesane, le elezioni comunali e come detto l’impatto della cronaca coeva sul tessuto sociale. A volte, sembra purtroppo un mondo ormai scomparso, con la vita frenetica che oggi ci contraddistingue. La realtà dei piccoli paesini di provincia allora non era subordinata al ticchettio degli orologi; per allestire una squadra di ragazzi era più necessaria la passione della professionalità, e così non risultava tanto strano che un professore di scuola, quasi terzo genitore, potesse darsi appuntamento al campetto con i ragazzi. Come si può oggi rimettere al centro di tutto il rapporto umano? È ancora possibile, nel vorticoso turbinìo della vita moderna?

Tutto ciò che tu citi, mi è servito per contestualizzare le vicende del romanzo. Raccontare, appunto, di un mondo quasi scomparso. Non c’è alcuna volontà nostalgica, perché non amo la nostalgia. Piuttosto, i bei ricordi del passato che non tornerà, devono essere come le radici di un albero che proietta i nostri rami verso il cielo del futuro. Io non so cosa si può fare oggi per rendere centrali i rapporti umani nel turbinìo della vita moderna, perché credo che l’uomo, anche se ha cambiato mezzi, attrezzi e strumenti intorno a sé, cerca comunque di stare in mezzo agli altri. I rapporti umani sono centrali anche nella vita frenetica di tutti i giorni. Più che altro è che, stando in mezzo alle piazze virtuali, si ha l’impressione di avere un rapporto umano con chi sta dall’altro della connessione al server, ma poi si è soli. Il bisogno di incontrarsi, credo sia sempre lo stesso. Non penso si possa tornare al mondo di trent’anni fa, né lo considero giusto. Bisognerebbe solo avere più consapevolezza di come ci rapportiamo oggi agli altri e capire che insieme al contatto virtuale, c’è bisogno anche del contatto fisico.

7) Uno dei momenti più toccanti del romanzo è per me sicuramente quello in cui i dirigenti della squadra (cioè “la Santissima Trinità”) organizzano a sorpresa una gita a Lamezia Terme per far ascoltare ai ragazzi un concerto di De André, che in quel periodo stava presentando il suo album Le Nuvole. Le canzoni ascoltate quella sera, oltre a folgorare il cuore di Davide e compagni, resteranno una colonna sonora per l’intero campionato e aiuteranno ancor più a rafforzare lo spirito di gruppo. Ma ci sono anche altri riferimenti musicali, troppo numerosi per essere citati tutti in questa sede: basti come ulteriore esempio, anche perché indice di un mondo profondamente mutato, l’evento del concerto in piazza San Giovanni del primo maggio in cui si esibirono addirittura gli Iron Maiden e Robert Plant con la sua Whole Lotta Love: una congiunzione astrale davvero irripetibile! Dalle parole di alcuni protagonisti si coglie un invito alla partecipazione attiva alla vita pubblica anche sotto forme non convenzionali e attraverso medium, quale quello musicale, perché anch’esso, ad esempio, può costituire un potente mezzo di comunicazione. Negli anni Sessanta Bob Dylan partecipava alla marcia per i diritti civili verso Washington davanti ad una folla infinita di manifestanti: in quell’occasione Martin Luther King mandava il suo messaggio politico più forte con “I have a dream”. Musica e attivismo politico si tenevano a braccetto. La musica d’autore oggi può ancora farsi carico di questioni sociali e contribuire concretamente a “scuotere le coscienze”?

Dovrei rigirare la domanda e chiedere: «Qual è oggi la musica d’autore? Chi sono gli artisti che devono smuovere le coscienze?». Nelle canzoni più in voga oggi, anche nell’ambiente indipendente e alternative, non sento tanti messaggi collettivi, ma tanti testi che parlano di storie d’amore e di sentimenti individuali in cui è semplice riconoscersi. Non è facile schierarsi per una band o cantante, si potrebbe perdere l’hype giusto e passare di moda. Chi lo fa è, perlopiù, di un’altra generazione. Per esempio, recentemente ho visto il nuovo live di Caparezza e dal palco sono arrivati messaggi volti a scuotere le coscienze, riguardanti questioni sociali. Giusto per parlare di un’artista mainstream che tutti conoscono. Si pensa che i giovani siano più superficiali di quello che sono e gli si propongono messaggi con pochi significati, ma i ragazzi, secondo me hanno voglia di contribuire concretamente a cambiare la società. I “Fridays for future” lanciati da Greta Thumberg lo dimostrano. Per esempio, mi sono chiesto quali canzoni si ascoltano durante le manifestazioni ambientaliste. Gli unici artisti contemporanei e giovani sparati dalle casse sono i Måneskin, gli altri brani sono tutti di artisti di generazioni precedenti. Spero vivamente che possano nascere sempre più artisti che sappiano intercettare i bisogni dei giovani, perché la musica, per me, è il mezzo di comunicazione più forte per far nascere le rivoluzioni.

8) La squadra di calcio del Montalbano, di cui fanno parte i ragazzi protagonisti, è stata caratterizzata con attenzione e dovizia di particolari; la dinamica delle partite resa coinvolgente anche dai discorsi di incoraggiamento dei dirigenti durante l’intervallo. C’è, come in tutte le squadre, una formazione titolare: Tommaso, Ciccio, Davide, Peppe sono come Sarti, Facchetti, Mazzola e Corso la spina dorsale del team. Senza rovinare la sorpresa della lettura, possiamo dire che ad un certo punto della stagione uno dei ragazzi verrà contattato da una “big” di serie A per un provino: i due tramiti sono Antonello Cuccureddu e Giuseppe Furino, bandiere di una nota squadra dell’Italia settentrionale. Lo sport per te rappresenta una valvola per la crescita individuale e collettiva? Sei appassionato di calcio e sei rimasto “campanilisticamente” legato a qualche squadra calabrese?

Sì, per me lo sport, e in particolare il calcio, è sempre stato metafora delle sfide della vita. Non sono un tifoso, ma un appassionato. Ho sempre seguito le squadre della mia regione di origine e adesso, abitando a Reggio Emilia, vado allo stadio a vedere il Sassuolo. Sono inoltre un estimatore di scrittori come Soriano e Galeano, che del calcio mi hanno fatto amare la parte meno capitalistica. Continuo a seguire lo sport, anche se amo molto di più vederlo dal vivo piuttosto che in tv. Mi lascio ancora appassionare e commuovere dalle storie che stanno dietro la patina di successo degli sportivi. 

9) Volevo fare anche un accenno alla festa del patrono di Montalbano, San Nicola, organizzata la terza domenica d’agosto, in quanto mi sembrava un buono strumento per approfondire la cultura calabrese. Ho trovato le tue parole in merito molto evocative; dopo aver allestito il palco per il cantante e preparato i fuochi d’artificio, il parroco radunava le donne per la preparazione delle pietanze tipiche: i fileja ca suriaca (pasta fatta in casa con i fagioli), i pipi arrustuti (peperoni arrosto), i durci d’ova d’ova (biscotti di vario formato a cui sono intrecciate delle uova sode decorative) e le nacàtole (un dolce fritto, intrecciato a formare una “culla”, appunto naca in dialetto calabrese). Gli uomini, dal canto loro, trascorrevano il tempo a sfidarsi al gioco denominato “para e pigghia cu nun para nun pigghia“, che consisteva nel tentativo di inserire un chiodo in una trave di legno con esattamente tre colpi di martello. Ti va di raccontarci qualche tradizione a cui sei legato dalla tua infanzia?

In generale sono legato a tutte le tradizioni della mia terra d’origine. Non ce n’è una in particolare di cui potrei parlare. M’interesso anche degli aspetti religiosi legati alle tradizioni, soprattutto quando si mescolano con la vita di tutti i giorni. L’antropologia del luogo in cui sono nato è strettamente connessa con la religione, un po’ come in tutto il Sud Italia. È inevitabile parlarne quando si racconta la vita di un piccolo paese calabrese. Mi ha colpito, però, che un lettore di Mantova, mi ha detto che, in quelle pagine che tu citi, ha trovato anche il suo background culturale e le feste della sua infanzia. Quest’ osservazione mi ha fatto particolarmente piacere, perché vuol dire che sono riuscito a far immedesimare nella storia anche chi non ha le mie stesse origini. Era un mio obiettivo, mentre scrivevo, rendere universali le vicende. Ambientare la storia in Calabria, non ha una connotazione ideologica o di campanilismo, ma utilitaristica. L’ho fatto solo perché è uno dei luoghi che conosco meglio al mondo, quindi era più facile descriverlo.

10) Un’ultima domanda attraverso cui vorrei invitarti a sbilanciarti un po’ sul futuro: quali progetti hai in cantiere o ti piacerebbe attuare un giorno, sia per le tue band che per la tua scrittura?

Sto finendo in questo periodo la revisione del secondo romanzo, che segue le vicende di un altro dei ragazzini della squadretta di Montalbano. Poi ho in mente di scrivere il terzo. Infatti, nella mia testa, “Vincere perdendo” è il primo di una trilogia in cui voglio raccontare di fama, successo e realizzazione personale, attraverso le passioni della mia vita: calcio, musica e letteratura. Ho anche altri appunti per altre storie e spero di poter continuare a lungo a scrivere, perché è un nuovo modo di esprimermi che ho affiancato alla musica e che, per ora, mi sta dando tante soddisfazioni.  Per quanto riguarda la musica, invece, siamo in tour con i Nuju e, in autunno, uscirà il nostro sesto album: “Clessidra”, a cui, spero, possa seguire un lungo tour in Italia e in Europa.