(di Antonella Putignano) Ezio Bosso spiegava la musica in maniera semplice, perché del suono aveva compreso il senso più intimo e profondo: quel legame stretto con la vita ed il vivere. Ieri sera, presentato dal volto del giornalismo d’inchiesta di Raitre, Sigrido Ranucci, è andato in onda il docufilm di Giorgio Verdelli, Ezio Bosso – Le cose che restano.
Un grande regalo per gli spettatori. Il percorso artistico, la versatilità del polistrumentista, la vocazione naturale per la composizione, gli amici, la malattia, la gioia di suonare: Ezio Bosso, l’artista geniale e generoso. In questo prezioso film non c’è la minima traccia di retorica, né l’intenzione di creare alcun effetto speciale, ma solo la verità restituita alla fatica di una vita. Il percorso di un nobile artigiano d’arte: l’impegno, la dedizione, lo slancio, l’energia. Il volo del cuore. Un modo per raccontare il cammino necessario di un artista per spingersi oltre le proprie capacità tecniche, attraverso la ricerca, la messa in discussione, l’esercizio, il metodo, la costanza, il coraggio. Le idee. Ezio Bosso non era solo stimato dai suoi amici e colleghi , ma era amato, immensamente. Perché sapeva dare amore, come uomo, quando si raccontava, ma, soprattutto, lo faceva con il suo talento, mettendosi interamente a disposizione, e a servizio, del pubblico. Il film di Verdelli mette al centro proprio la sua arte, creando, così, più livelli di racconto: quello musicale, quello autobiografico, e la cronaca delle testimonianze.
Parole e suoni. Il concerto di una vita intera. Malgrado il dolore acuto che gli procurava la malattia, Ezio Bosso suonava e dirigeva l’orchestra abbracciando la musica, quasi interpretandola, fisicamente. Il suo corpo era sempre energico, teso, espressivo. Le note vivevano in lui. Raitre ha mandato in onda la carezza della sua poesia.
Antonella Putignano