(di Giorgio Cavagnaro)

Noioso, lento, disturbante. Più o meno questo il compendio di aggettivi squalificativi utilizzato dall’ampio parterre di detrattori dell’ultimo film di Nanni Moretti, quel Tre piani presentato quest’anno a Cannes con esiti di critica controversi.

E allora partiamo da qui, dagli aggettivi. Il tentativo di cambiare strada, girando un film non direttamente scaturito da un’idea genuinamente morettiana (è tratto dall’omonimo romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo) anche per me non ha dato il risultato sperato. Vediamo di capirne il perché.

L’aggettivo “disturbante”, applicato a un’opera cinematografica, non comporta in genere una connotazione negativa. È anzi il segnale di una scossa, di un esperimento riuscito. Se l’esperimento non riesce, ecco affacciarsi la delusione, e con lei, fatalmente, l’insoddisfazione di assistere effettivamente a un film lento, a tratti noioso, in cui la morale così cara a Moretti perde ogni riferimento kantiano, calata com’è in un microcosmo borghese fatto di personaggi per lo più dolenti e antipatici, che l’autore non riesce a comprendere e padroneggiare con la consueta ironia. Consapevole forse di ciò, Moretti consente a se stesso e agli spettatori una boccata d’ossigeno, ma solo nel finale delle tre storie parallele, e addirittura una autocitazione nella scena del ballo in strada. Il tutto suona purtroppo incongruo e fuori registro nella cupezza complessiva di un film che, nelle mani di Bunuel, o Visconti, o addirittura di Paolo Sorrentino avrebbe avuto un altro respiro.

Citazioni di merito per Margherita Buy, credibile e puntuale come sempre, per Anna Bonaiuto, Tommaso Ragno e Stefano Dionisi, tutti in piccoli ruoli.