(di Giorgio Cavagnaro) Era tempo che qualcuno si prendesse la briga di mettere ordine nel complicatissimo albero genealogico della brillante epopea comica napoletana fiorita tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, risplendente del genio di Eduardo Scarpetta e della miriade di figli, figliastri e nipoti, tutti eredi di quel Don Felice Sciosciammocca, maschera popolare capace di rivaleggiare nientemeno che con Pulcinella.
Questo qualcuno non poteva essere che Mario Martone, e lo ha fatto da par suo in Qui rido io, presente in concorso a Venezia 78. Cinema che entra nel teatro e si fa teatro, senza alcun timore reverenziale nel racconto di una realtà e di una finzione scenica continuamente intrecciate, come solo quel palcoscenico permanente che è la città di Napoli può permettersi.
Il risultato è un godimento continuo per lo spettatore, divertito ed emozionato dalla doppia maschera, come teatro esige, di Toni Servillo e di tutta la raffinatissima ciurma di teatranti da lui capitanata, in cui eccelle come di consueto Gianfelice Imparato, nel ruolo del “traditore” Gennaro Pantalena, e poi Maria Nazionale e Cristiana Dell’Anna, dolenti sorelle De Filippo, ed Eduardo Scarpetta (tanto nomini).
Citazione d’obbligo per il bambino Salvatore Battista, impagabile Peppino De Filippo cui il regista ha riservato il tocco di classe del precoce ciuffetto alla Pappagone.
Meravigliosa la colonna sonora col meglio della canzone napoletana d’antan, compresa quella ’E spingule francese di Roberto Murolo, capace di trasportarmi in volo nella mia infanzia remota.
Memorabile infine il coup de theatre con cui il grande istrione risolve in tribunale, con l’aiuto di Benedetto Croce, la causa che lo oppone addirittura a Gabriele D’Annunzio e che sarà il canto del cigno per l’ormai anziano capocomico. Applausi scroscianti. Sipario.