(di Giorgio Cavagnaro) Che regista, Pietro Germi. Che film Il ferroviere, girato nel 1956 e passato di recente su La7. Un’occasione irripetibile per verificare cos’era l’Italia del tardo dopoguerra, quali erano i rapporti tra gli uomini e le donne di sessanta e più anni fa, così diversi ma anche così incredibilmente immutabili.

Andrea Marcocci, macchinista ferroviere interpretato dallo stesso Germi, è un ruvido capofamiglia, esemplare di una razza praticamente estinta. Autoritario, lavoratore instancabile, padre manesco e un po’ troppo attaccato al fiasco, incapace di comprendere i sentimenti e i guai delle generazioni che si stanno affacciando al mondo: i suoi figli. La maggiore (una bravissima Sylva Koscina) per le sue infelicità sentimentali, il secondo coinvolto in affari loschi, il bambino Sandrino, parente stretto dell’Enzo Staiola di Ladri di biciclette. La moglie di Andrea (Luisa Della Noce), donna della sua epoca, tenta disperatamente di tessere la difficile tela della mediazione, risultando alla fine il personaggio più positivo ed equilibrato del film, come spesso tocca alle donne sul set e nella realtà. Da menzionare poi Saro Urzì, fedele amico di Andrea, e Carlo Giuffrè.

Il film ha avuto anche vicissitudini di stampo politico. L’irascibile Marcocci viene emarginato dall’azienda e dai sindacati a causa di un incidente e diventa crumiro per ritorsione, quando viene proclamato uno sciopero dei ferrovieri. La cosa non andò giù ai comunisti dell’epoca, che ritennero inaccettabile mettere in risalto un simile comportamento da parte di un lavoratore. Dal canto suo, ricordo che anche mio padre, ferroviere e di origine genovese come Germi, non gradì il film. Troppo cattolico e benpensante per associare la sacralità del suo lavoro a vicende umane per lui intollerabili.   

Il finale è per me uno dei più commoventi della storia del cinema italiano. Se non ne parlo non è per motivi di spoiler, ma per invogliarvi a vedere, o rivedere, questo capolavoro.