di Giorgio Cavagnaro

Alla fine degli anni sessanta Sergio Leone era una star mondiale. Dopo i memorabili western “all’italiana” con Clint Eastwood, il ruvido regista romano sentiva dentro di sé il bisogno di una crescita, di continuare e vincere la sua sfida con il colosso americano. Nella sua immaginazione stava prendendo forma la Trilogia del Tempo, tre film grandiosi che avrebbero tratteggiato la sua visione del nascente mito a stelle e strisce. Spalleggiato da tipi come Tonino Delli Colli ed Ennio Morricone, Leone non ci andò leggero e affrontò il nuovo continente con la sua versione della storia più americana che potesse esistere.

 

Con C’era una volta il West, nel 1968,  il guanto di sfida era bello che lanciato, con effetti esplosivi: botteghini in tilt in Europa, critiche anche un po’ risentite in America, come era prevedibile. Fatto sta che le note dell’armonica suonata magistralmente in studio da Franco de Gemini e sullo schermo da Charles Bronson (Armonica, per l’appunto) se le ricordano ancora tutti, come il maestoso andamento di una pellicola epocale.

Nel 1971  Leone aveva già il pensiero rivolto alla scrittura del suo capolavoro, di cui parleremo dopo. Ma nel frattempo si stava materializzando l’occasione per produrre il secondo atto della Trilogia.

Il titolo doveva essere “C’era una volta la rivoluzione”, quella messicana di Pancho Villa ed Emiliano Zapata, raccontata e vissuta da due che magari la Storia non la fanno, ma il grande cinema certamente sì: nei panni cenciosi di Juan, peone messicano, dà il meglio di sé un grande Rod Steiger, mentre al suo compagno di avventure, il dinamitardo irlandese John “Sean”Mallory presta la maschera impassibile e beffarda James Coburn. Sarà il suo puntuale“Giù la testa, coglione!”, avvertimento per Juan prima di ogni botto in arrivo, a regalare il titolo al film; senza l’ultima parte, tagliata per fortuna solo metaforicamente, per motivi di censura. 

Giù la Testa (per riscoprire la colonna sonora possibile trovarla su BTF) andava benissimo.
Ennio Morricone tirò fuori dal suo cilindro una canzone che fece epoca, la famosa Sean Sean, per tutti “Scion Scion”, utilizzata per assonanza dalla Domenica Sportiva come sfondo musicale delle vittorie di Gustav Thoeni. La cantante Edda Dell’Orso la caratterizzò coi suoi vocalismi, in una miscela originalissima di fischi, voci angeliche, strumenti e rumori inconsueti escogitati per l’occasione dal Maestro.

 

Per il terzo atto della Trilogia del Tempo, il capolavoro, toccò aspettare il 1984. Per come è stato concepito e realizzato,  il monumentale C’era una volta, in America non sembra nemmeno un film italiano, il che suona allo stesso tempo come un complimento e un insulto. La storia, anzi, l’epopea dei due gangster David “Noodles” Aaronson e del suo acerrimo amico Max Bercovicz (Bob De Niro e James Woods ai vertici delle rispettive carriere) racconta l’infanzia e l’adolescenza del nuovo continente in chiave criminale: più di trent’anni in un’impressionante successione di immagini che ricorda la struttura narrativa di un affresco rinascimentale suddiviso in quadri o, se volete, un moderno arazzo di Bayeux.

Qui in Italia, ne sono testimone diretto, la scena che ha colpito di più l’immaginazione è sicuramente quella, celeberrima, girata all’Hotel Excelsior di Venezia, in cui Noodles riserva l’immensa sala da pranzo di un favoloso ristorante sul mare solo per sè e la sua  Deborah (la soave Elizabeth Mc Govern).

Un mio collega di ufficio dell’epoca non la smetteva mai di mimare quella sequenza sul posto di lavoro, incurante delle eventuali conseguenze: abbracciando un’immaginaria dama, percorreva il corridoio roteando e cantando “Amapola”, con qualche pratica da evadere stretta al petto, in precario equilibrio. La scena aveva fatto decisamente colpo.

Come quando a Noodles, ormai anziano e rassegnato, viene chiesto cosa abbia fatto in tutti questi anni. Dopo la pausa di prammatica, la risposta è folgorante come un colpo di revolver: “Sono andato a letto presto.” Colpito e affondato.

Giorgio Cavagnaro