(di Renato Marengo) Non avevo ricordato subito di essere stato a lungo intervistato due anni fa da Deborah Farina, accompagnata da Lino Vairetti, proprio per questo film. Io, come si vedrà nel corso del docufilm, ho raccontato davanti alla cinepresa gli antefatti relativi a tutto il movimento che chiamai Napule’s Power che hanno preceduto l’avvento sulle scene e sui palchi dei grandi raduni sociomusicali degli anni ’70, degli Osanna. Ma anche il contesto, i compagni di palco e di vinile del periodo in cui Lino Vairetti e Danilo Rustici con Elio D’Anna e compagni diedero vita a una delle formazioni fondamentali per la nostra musica ma soprattutto per il Prog internazionale.

Narratore di fatto con me nel film di questi eventi ai quali abbiamo entrambi partecipato è anche Raffaele Cascone, altro operatore culturale fortemente impegnato e coinvolto nel racconto e nella divulgazione in radio e sui media di tutto il movimento del quale gli Osanna, come bene evidenzia Deborah Farina nel suo film, sono stati tra i principali protagonisti.

Il film, girato con mezzi “amichevoli” e con il contributo dello stesso Vairetti, non ha comunque nulla da invidiare a quelli realizzati da produzioni certamente più pretenziose, Deborah ha fatto uno splendido lavoro anche nel montare accanto al materiale girato documenti storici eccezionali di concerti di folle oceaniche, tensioni e atmosfere di location e di impegnata e ribelle partecipazione giovanile, mescolando al racconto musicale testimonianze preziose sulla protesta e le atmosfere politicizzate e socialmente partecipi a qualcosa che non era certamente solo musica e canzone ma evento storico.

Il film è comunque soprattutto un bellissimo documentario musicale con suoni che sanno alternare con equilibrio poderose ondate di ritmi e chitarre a vigorosi  momenti persino lirici di voci, flauti e tastiere.

Mi è venuta voglia di intervistare Deborah per saperne di più sulla capacità che ha dimostrato di raccontare così bene gli Osanna, la loro musica, la loro storia, arricchita dai tanti artisti leader di formazioni di rock e prog mondiale che vi partecipano e evidenziando il perché del loro successo internazionale e della capacità di Lino Vairetti di continuare festeggiando i cinquant’anni del gruppo anche tra mutazioni di tempi e di  musicisti.

Deborah, tu che esperienze precedenti avevi nel cinema?

«Mi sono laureata in Storia e critica del Cinema alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’università La Sapienza di Roma, la mia città, con una tesi sul Cinema Diretto e il Concert Film, provenendo da studi artistici e di architettura. La mia passione per la scrittura creativa mi ha portato sin dalla più tenera età a scrivere spettacoli – per lo più cabaret e varietà, che all’epoca non avrei mai saputo classificare come tali – che gestivo in ogni aspetto, recitavo e facevo recitare al mio cast: mia sorella Sonia e la mia migliore amica Germana. Avevo circa otto anni e la cosa è continuata per molti anni ancora. Andavo a danza classica e già costruivo visioni tra movimento e musica alle quali, ormai adolescente, univo la gestione calcolata della spazialità con lo studio della recitazione. Bagaglio che mi sarei portata dentro, accanto al poter fissare l’immagine trasmessa dalla vista al cervello, attraverso la materialità di un segno su un foglio bianco. Questi processi sarebbero stati alla base del mio interesse per il medium cinematografico che scoprii, durante gli anni universitari, essere la perfetta fusione degli elementi in un’opera unica che avrebbe avuto dentro se non solo lo spazio e la bidimensionalità di un’opera figurativa, ma addirittura il tempo, in una tridimensionalità estrema tra sguardo esteriore e mondo interiore e onirico. Di li, ho iniziato a girare con una videocamera video8, mettendo le immagini su vhs e usando due videoregistratori per montarle. In questo modo ho ottenuto il primo rudimentale, quanto sperimentale, cortometraggio dal titolo Rome Armonic Symphonic Orchestra, girato completamente nel mio quartiere: l’Eur».

L’Eur è il quartiere ‘metafisico’ di Roma, quale è la tua provenienza, quali sono le tue radici?

«Sono nata dentro una composizione di De Chirico e dentro l’Eclisse di Antonioni e, se devo pensare a un’immagine che mi ha sempre affascinato, della storia del cinema, mi sento come Anita Ekberg gigante per le strade deserte di Viale della Civiltà e del Lavoro, con il ‘Colosseo quadrato’ alle sue spalle, in Boccaccio ‘70 di Fellini. In quel ‘non spazio’, ho affondato le mie radici visive e percettive. Quelle strade fanno parte della mia vita, quel bianco, quella geometria, l’acqua di un laghetto artificiale e in lontananza a scandire il panorama quei punti cardine, una costruzione tondeggiante a sfiorare il cielo, dei ‘grattacieli’ specchiati e la ruota di un Luna Park. A Roma ci sono nata, ma le mie origini sono siciliane, da tempi immemori di generazioni anche aristocratiche nei rupestri antichi latifondi al centro dell’isola. Le mie radici di sangue affondano li, tra le mura della casa di mia nonna al lago di Pergusa (Enna), che vedevo una volta l’anno come un miraggio e una fuga. Quel mondo così lontano dalla ‘metropoli’, dal ‘continente’, ma così solare nel mio ricordo, si è mescolato alla ‘freddezza’ del bianco e al cinismo degli sguardi del mondo borghese che guardava dall’alto al basso una bellissima bambina dai lunghissimi capelli biondi, talmente timida da non riuscire a parlare. Non parlavo e immaginavo, costruivo le storie con personaggi fantastici che si palesavano di fronte ai miei occhi. Li facevo vivere attraverso poesie, in quel mio parallelo mondo poetico che non mi hai mai abbandonato».

Raccontaci della tua esperienza di studio e lavorativa nel mondo del cinema negli Stati Uniti.

«Negli Stati Uniti, che ho sempre idealizzato per il fondamentale apporto che hanno dato alla cultura dello spettacolo a 360 gradi dal dopoguerra a oggi, penso in particolar modo alla musica black di ogni natura, al cantautorato di contestazione e al rock, alle nuove frontiere d’avanguardia del New American Cinema e tutte le sue diramazioni tra east e west coast, poi sfociato nella New Hollywood. Proprio del Nac sono diventata studiosa, come dell’exploitation e in generale di quel cinema indipendente, sul quale ho scritto tanti saggi subito dopo la laurea (tra gli altri, cito il primo: Filmakers. Le storie del cinema indipendente e Rockumentary & Concert Films. Manuale del cinema rock, entrambi editi da Editrice Cinetecnica). A New York, dove ho potuto approfondire i miei studi, ho conosciuto il mio maestro, il leggendario documentarista americano Albert Maysles (del duo Maysles Brothers, con il fratello David), che mi ha insegnato sul campo il direct cinema, di cui è stato fondatore insieme ai filmakers della Drew Associated. Il ricorso al ‘cinema diretto’, corrispettivo del ‘cinema verità’ europeo, è stato la chiave di volta per intraprendere un mio percorso di ricerca strutturale sul come realizzare un film documentario. Gli anni newyorkesi li ritengo fondamentali nella costruzione del mio immaginario visivo. L’andare alcuni anni dopo a Los Angeles, da cui sarei voluta scappare dopo qualche giorno per il livello di straniamento, esagerato anche per me, mi ha però permesso di capire i meccanismi di ‘fiction’, nel vero senso della parola, che sono dietro una produzione cinematografica e come un film possa vivere di una costruzione mediatica oltre che di se stesso. Ho visto i set, del tutto naturali, il pupazzone originale di King Kong e gli scheletri dei dinosauri, il Kodak Theatre posto nel sottoscala di un centro commerciale. Lì ho capito che tutto poteva essere possibile. È nato quindi il mio primo lungometraggio Paranoyd. A visual sensorial experience, tra il 2006 e il 2007. Il film è divenuto un caso nel cinema indie e non italiano, in quanto realizzato da due sole persone in un giorno di riprese, come recitava lo slogan, addirittura definito da Quentin Tarantino quale il miglior film del cinema italiano degli ultimi anni. Paranoyd, thriller psicologico e psichedelico, intriso di musica che io stessa ho sonorizzato sinteticamente con l’aiuto di un pc, ha aperto la strada ai film successivi».

Quindi quali altri film hai realizzato prima di Osannaples?

«Dopo Paranoyd, la società con il co-autore del film si è sciolta. La mia Sony170 si è scassata. Il computer è scomparso. Ho dovuto quindi rimettere in piedi il tutto, da sola, investendo tutto quello che avevo in attrezzatura. Sapevo che quell’anno a Venezia 68, il 2011, si sarebbe fatta una bellissima retrospettiva sul cinema underground italiano degli anni Sessanta e Settanta (a cura di Domenico Monetti, Luca Pallanch ed Enrico Magrelli, con l’egida del grandissimo direttore artistico Marco Muller), mi sono quindi proposta per poterne girare un documentario. È nato così Anarchitaly. Cinema espanso e underground italiano 1960 – 1978, che ho presentato alla Festa del Cinema di Roma. Dato il successo avuto, mi è stato subito proposto di poter realizzare un omaggio alla figura del regista Fernando Di Leo, icona del cinema noir italiano, per il decennale dalla sua morte. Dopo due anni di lavoro e diversi cuts, ha visto la luce la prima versione di Down by Di Leo. Viaggio d’amore alla scoperta di Fernando Di Leo, che ha avuto al suo interno grandi personaggi ‘pop’ da Renzo Arbore a Lino Banfi a Barbara Bouchet. Ho accettato subito questa proposta con grande entusiasmo, perché, già da anni precedenti l’inizio della mia attività di regista, frequentando i festival cinematografici nelle giurie come storico e saggista, avevo avuto una grande fascinazione dal cosiddetto ‘cinema di genere’ italiano. Avevo iniziato a scoprire ‘criticamente’ registi come Umberto Lenzi, Sergio Martino, Ruggero Deodato, Enzo G. Castellari, Lucio Fulci e Fernando Di Leo il cui film Milano calibro 9 ritengo una delle pietre miliari del nostro cinema».

Come ti è venuto in mente di fare un film con gli Osanna? E perché proprio gli Osanna?

«Proprio la colonna sonora di Milano calibro 9, che continua a sconvolgermi per la sua vena profondamente hard rock unita all’orchestrazione classica, mi ha fatto conoscere il gruppo degli Osanna. Io non pensavo che si trattasse di una band italiana, ero convinta fosse una band inglese vicina alle sonorità dei Led Zeppelin e con un chitarrista assolutamente hendrixiano, Danilo Rustici, che mai avrei immaginato fosse di Napoli. Ho quindi iniziato ad ascoltarli, mi sono sconvolta con Palepoli e ho trovato una diversità e avanguardia, rispetto al tessuto musicale del loro tempo, che li ha fatti diventare la mia band conterranea preferita, alla stregua di Deep Purple e colleghi. Ho scoperto musicisti incredibili in tutti i componenti storici della band: Elio D’Anna, Massimo Guarino, Lello Brandi, accanto ai co-fondatori Lino Vairetti e Danilo Rustici, un ensemble irripetibile. Mi sono detta che se mai un giorno avessi realizzato un rockumentary, avrei voluto farlo su di loro. Il valore aggiunto, tra l’altro, era proprio il loro essere partenopei. Nell’immaginario comune Napoli è vista come la patria della musica storica melodica, riconosciuta e amata in tutto il mondo attraverso classici intramontabili e sempre attuali; Napoli invece è anche altro, e proprio perché ha sempre trovato la sua anima nella musica, ha saputo essere culla anche di sonorità controcorrente, ma allo stesso modo esportate e oggi riconosciute come delle vere e proprie avanguardie a livello nazionale e internazionale. Gli Osanna sono l’esatto anello di congiunzione, per il mondo del ‘rock’, tra quella storia (che sarebbe passata per il rythm’n’blues  degli Showman di Musella e Senese) e quest’altra storia di cambiamento che avrebbe gettato le basi per il Napule’s Power».

Gli Osanna sono stati i primi, ma spieghiamo ai nostri lettori lettori chi vedrà questo film che cosa scoprirà di questo movimento napoletano?

«Scoprirà una grande storia musicale, sociale e politica le cui diramazioni hanno gettato le basi per il movimento del Napule’s Power, facendo confluire insieme in un unico urlo rivoluzionario tutte le suggestioni in un nuovo e suggestivo modo di intendere e realizzare il magico sound partenopeo: dal rock d’avanguardia degli Osanna, alla rielaborazione della nuova musica popolare, agli echi acid jazz e fusion d’oltralpe, all’uso del dialetto quale matrice culturale legata alle proprie radici ancestrali. Ed è molto bello parlarne proprio con te Renato, in quanto tu hai coniato il termine “Napule’s Power”, per identificare questo nuovo corso della musica partenopea e ti ringrazio per averlo anche raccontato in Osannaples, alternandoti a un altro grande personaggio, imprenscindibile, come te, nella nascita e divulgazione del movimento, ovvero Raffaele Cascone. Il vostro ricordo, il vostro racconto, si alterna alle immagini che intendono ricostruire un raro e necessario momento storico: quello delle prime lotte rivoluzionarie, delle prime manifestazioni musicali controculturali in una città intrisa di tradizione. Era necessario introdurre la storia, raccontando come riuscì a penetrare nel tessuto cittadino la musica angloamericana, che avrebbe ispirato molti ‘neri a metà’ per citare l’icona del movimento Pino Daniele. Realtà avvenuta grazie a diversi elEmenti: i ‘marines’ stanziali alla base Nato di Bagnoli, molti dei quali musicisti (e con i propri dischi in valigia), il lavoro di approfondimento teorico da parte tua (nonché, successivamente, di producer), e di coloro i quali portavano i 33 giri da quella ‘swinging London’ centrale nella new wave del rock quale Raffaele Cascone che, fuoriuscito dai Battitori Selvaggi e confluito nei Campanino, dopo aver fondato il primissimo Balletto di Bronzo, iniziava il suo percorso londinese. Del ‘nuovo’ Balletto di bronzo, in Osannaples troviamo Gianni Leone, musicista di immenso valore artistico, che iniziò la sua carriera musicale proprio con Lino Vairetti e i suoi primi Città frontale, lasciando quindi il posto a Elio D’Anna con il quale sarebbero nati gli Osanna. E poi tante testimonianze di ieri e oggi: dai grandi del prog internazionale quali David Jackson, David Cross, Carl Palmer e Vittorio De Scalzi, Aldo Tagliapietra, Corrado Rustici, Enzo Vita, al compianto promoter e organizzatore dei festival pop Pino Tuccimei, a Giorgio Verdelli, Guido Bellachioma, Gino Aveta, Carmine Aymone, Franco Vassia, Leonardo Quadrini, gli “Osanna” di “Suddance” Fabrizio D’Angelo e Enzo Petrone, Gianni Guarracino e Paolo Raffone i “Città frontale” mark II, Fabrizio Fedele, Andrea Palazzo e tante altre voci incastrate in un mosaico di piani, tra cui, di estrema importanza, un livello di pura psichedelia con la contemporanea line up della band composta da Gennaro Barba, Pasquale Capobianco, Nello D’Anna, Sasà Priore, Irvin Vairetti».

Parlaci di questo festival, come mai hai pensato di parteciparvi?

«Attenzionando tutti i festival del mondo che hanno come argomento il cinema musicale, ho scelto di poter tentare di partecipare al Seeyousound International Music Film Festival di Torino, in quanto uno dei più importanti e prestigiosi in materia. Ho quindi iscritto il film e ho provato una grande felicità quando ho saputo che Osannaples non solo era stato selezionato, ma sarebbe entrato  a far parte della maggiore vetrina del festival stesso, la sezione “Into the groove”, curata dal Direttore Artistico Carlo Griseri, dedicata alle produzioni dalla vena maggiormente mainstream e ai grandi nomi cult della musica mondiale. Con noi, per citare alcuni titoli, sono in programma Crock of Gold di Julien Temple, coprodotto da Johnny Depp; e Blondie in Havana con Debbie Harry di Rob Roth. Per noi, questa del 25 febbraio sarà l’anteprima assoluta ‘director’s cut’ e non posso negare di essere molto emozionata, dopo tutto questo lavoro durato tre anni».

Per chi volesse vederlo, com’ è possibile farlo?

«A causa dell’emergenza sanitaria Covid, il Festival sarà proiettato interamente online (sarebbe dovuto essere fatto al Cinema Massimo e al Museo del Cinema di Torino), sulla piattaforma playsys.tv del festival stesso, da cui si può accedere attraverso il sito www.seeyousound.org da cui è possibile selezionare il ticket di ingresso per Osannaples (al costo di 3.99 euro)».

Hai avuto  subito, da chi ha già visto il film delle ottime critiche, te le aspettavi?

«Devo dire che sono davvero felice per questi primi apprezzamenti per il grande lavoro fatto per Osannaples. È un importante incoraggiamento dopo tanto tempo e sacrificio. Ho scritto e diretto il documentario, l’ho girato, l’ho montato, ho fatto tutte le ricerche storiche coadiuvate dell’incredibile archivio dei materiali di Lino che sono presenti nel film. Sono davvero grata a La Stampa di Torino che ha iniziato la campagna di divulgazione del festival scegliendo proprio l’immagine degli Osanna sul set di Osannaples quale icona sul suo primo articolo, e alla grande firma Marinella Venegoni che ci ha dedicato una bellissima pagina; Il Manifesto, che ha descritto il film; tutte le testate campane da Il Mattino con il sentito articolo di Federico Vacalebre e Il Corriere del Mezzogiorno con Carmine Aymone; alle testate web, da Rockon a Rockerilla; e a tutta la stampa di settore che ha inserito il documentario tra le visioni imperdibili del Seeyousound; come a tutti coloro i quali stanno aiutando la diffusione del film attraverso social e varie, quali il fan club degli Osanna e tante realtà sia in Italia che all’estero. Questa è solo una fase iniziale, stiamo preparando un tour del film e tanti eventi intorno ad esso».

Come è nata la collaborazione con Lino Vairetti e come è scattata questa ‘attrazione fatale’ per gli Osanna?

«Ho conosciuto Lino personalmente il 9 giugno del 2017, in un piccolo e molto vitale teatro del Vomero, il Teatro Zona Vomero, dove ero stata invitata a proiettare il mio documentario su Fernando Di Leo Down by Di Leo. Durante l’antecedente lavorazione, per un fatto di timidezza e perché le interviste erano gestite dai co-sceneggiatori Domenico Monetti e Luca Pallanch, non mi ero avvicinata agli Osanna. Però, con l’occasione della proiezione napoletana, ho preso coraggio e ho invitato Lino, che mi ha risposto e ha subito accettato di partecipare al talk. Lui non sapeva che cosa avrebbe prodotto quell’incontro! Ho scoperto in lui una persona meravigliosa e l’attrazione fatale che già si era consumata con l’ascolto di grandissima fan degli Osanna, è avvenuta anche su un piano umano. Gli ho quindi chiesto se potevo realizzare un rockumentary sulla sua mitica band e lui non se l’è fatto dire due volte, fidandosi istintivamente. E per questo lo ringrazierò sempre. Quell’empatia, sempre più profonda e produttiva, ha portato a una strettissima collaborazione tra noi, che oggi vede la nascita del mio quarto lungometraggio: Osannaples».