Preannunciato dai singoli Porsi, Torpi, Cicciona e Dopamina, Marco Castello ha esordito con il suo primo album il 5 febbraio scorso. Contenta Tu – questo il titolo del lavoro di quello che è considerato uno dei talenti musicali italiani più originali e internazionali in circolazione, inciso per 42 Records in Italia e Bubbles Records nel resto d’Europa – è stato registrato al Butterama Studio di Berlino e prodotto insieme a Marcin Öz e al produttore e compositore Daniel Nentwig.
I dieci brani sono una miscela di generi, tutti gravitanti comunque intorno al funky jazz e al blues. Canzoni orecchiabili, pop, dai testi divertenti e scorrevoli, eseguite con voce limpida e fresca, che riportano alla memoria gite scolastiche, corse in moto, jam session, primi baci e notti in spiaggia… Fabio Concato e Lucio Battisti sembrano essere i numi tutelari di Castello, che nella traccia numero 8, Villaggio, è accostabile financo a Caetano Veloso.
Quello di Marco è un vero e proprio ritorno alle origini, alla sua città, Siracusa, dove ha fatto ritorno dopo aver studiato a Milano e girato il mondo al fianco di Erlend Øye dei Kings of Convenience nel progetto La Comitiva. «A Siracusa – racconta – c’è questa strana chiesa gigante, il Santuario, un cono di cemento armato di cento metri, come un faro, un occhio di Sauron che torreggia su tutto. Non c’è molto da discutere sui motivi della sua esistenza, erano gli anni Sessanta, miracolo economico, miracolo di un quadretto della Madonna che comincia a lacrimare, tutte ottime occasioni per far sentire importante una piccola città. Non bastava mica il paesaggio, la luce unica, la storia millenaria da capitale di un paio di imperi, Archimede, il barocco, la granita, la matalotta, no: avevamo e abbiamo tutt’ora un preciso modello da seguire, l’ambizione di essere all’altezza del trash verso cui il mondo si accingeva ad andare e di cui adesso vediamo la piena realizzazione. Il santuario è un buon esempio delle contraddizioni che hanno ispirato gran parte delle canzoni che stanno dentro il disco. È possibile volere bene a quella voglia di somigliare a qualcosa che fa schifo, che fa desiderare di avere la faccia come un filtro di instagram, che ci fa ambire ad essere tutti famosi, tutti invidiati, tutti guerrieri spietati, tutti i migliori, tutti americani, quando ci basterebbe guardarci un attimo attorno per capire che la nostra propria e luminosa bellezza è soltanto sommersa dalla cacca che ci facciamo e che ci facciamo fare addosso? Non saprei, a volte mi intenerisce, a volte non posso farne a meno, a volte me ne vergogno».