(di Walter De Stradis) Daniele Magni, autore del libro Contaminations, il fantacinema italiano degli Anni 80, ci spiega i perché della scomparsa di quel nostrano cinema “di genere” e del rinnovato interesse odierno dei cinefili “internettiani”.
«Passaggi di VHS al limite della visibilità, di registrazioni Tv “anteguerra”, e scambi effettuati con personaggi che da anni si occupavano meritoriamente del “cinema bis” italiano». È questa una parte della “trafila” che lo scrittore Daniele Magni ha dovuto affrontare, una decina di anni fa, per dar corpo alla prima stesura di Contaminations, il fantacinema italiano degli Anni 80, recentemente riveduto, corretto, ampliato e ristampato da Bloodbuster.
Il libro, nella sua nuova veste, è un esauriente studio su tutti quei figli illegittimi, con carta d’identità italiana, dei più celebri “Jena Plissken”, “Conan”, “Mad Max” e “Terminator” che spopolavano a livello internazionale. Un testo su quegli ultimi protagonisti, un po’ alla “cacio e pepe” insomma, di una lunga serie di film derivativi, copiativi e apocrifi, certo, alcuni dei quali persino interessanti, ma che in ogni caso rappresentarono il canto del cigno delle produzioni commerciali e “di genere” di casa nostra. Del perché di quell’inesorabile declino e di un clamoroso “ritorno di fiamma” negli interessi dei cinefili che scaricano da Internet (ma non solo) ne abbiamo parlato con l’autore.
Il cosiddetto “cinema di genere” italiano, sia esso “spaghetti western”, “poliziottesco” o “postatomico”, e per quanto sovente imitativo e apocrifo, era comunque segno di vitalità della produzione italiana. Perché a un certo punto è tutto finito? Colpa delle tv private, della crisi del cinema, dell’home video… o di che altro?
«Ho preso interesse al “fantacinema” italiano degli Anni Ottanta proprio grazie al “postatomico”, sub-genere che è un po’ la continuazione, se vogliamo, del “poliziottesco”, in quanto molti attori e registi provenivano da lì. Spostarsi da un genere all’altro era infatti una delle caratteristiche di quei “registi artigiani”, ovvero di coloro che facevano film pensando principalmente agli aspetti commerciali, ma che “a loro insaputa” poi hanno iniziato a essere considerati degli “autori”. Lenzi, Di Leo e soci hanno tutti una loro cifra riconoscibile. Con gli Anni Ottanta tutto il cinema “di genere” finì, proprio perché era un prodotto con intenti prettamente commerciali, che andava a rifornire quel mercato di “seconda fascia”, le cosiddette “sale di profondità”, di provincia, parrocchiali, di seconde e terze visioni. Negli Anni Ottanta ci fu il boom delle tv commerciali che presero il testimone per questo tipo di cinema. A quel punto certi film non vennero più fatti pensando alle sale, ma all’home video: alcuni non raggiunsero mai i cinema e addirittura alcune videocassette nemmeno l’Italia, destinate com’erano alle cosiddette distribuzioni “terzomondiste”. Si giunse quindi via via a produzioni sempre più povere, scalcagnate, fino all’estinzione totale del genere. Estinzione che, tra l’altro, dipese anche dal pensionamento di quei registi che passavano con grande abilità da un genere all’altro, messi –sbagliando- in naftalina dalle produzioni, e decretando il trasferimento del cinema “di genere” sul piccolo schermo».
Alcuni di questi “fantafilm” italiani degli Anni Ottanta paiono godibili anche “fuori contesto” -penso alla “Trilogia del Bronx” di Castellari e a pochi altri- ma non trova che per poter apprezzare la maggior parte di essi occorra un certo qual gusto del “trash”?
«Non parlerei di gusto del “trash”, bensì di gusto “fumettistico”, di chi ama il cinema balocco, quella “grande avventura” che in qualche misura ci mantiene bimbi. Se lo “spaghetti western” nostrano ha influenzato addirittura i film americani degli Anni Settanta, e se il nostro “poliziottesco” (pur nascendo a sua volta dai vari “Ispettore Callaghan”, “Il Braccio violento della Legge” e “Il Giustiziere della Notte”) fa ancora oggi scuola nel mondo, non si può dire lo stesso per il nostro cinema fantastico, che rimane sempre qualcosa di derivativo e di scopiazzato, anche nei suoi titoli più riusciti. La stessa “Trilogia del Bronx” -che lei giustamente cita fra i lavori migliori di quel periodo- in realtà è un misto di “1997 Fuga da New York” di Carpenter, de “I Guerrieri della Notte”, di “Mad Max” e di mille altre cose già viste. Probabilmente c’è qualcosa di interessante fra alcune altre produzioni minori che non si rifacevano a nulla, o quasi, anche se viene da dire che la fantascienza migliore prodotta in Italia –ove non c’è una grande tradizione in questo senso- è ancora quella di Antonio Margheriti e dei suoi film degli Anni Sessanta (che allora erano quasi concorrenziali con quelli del resto del mondo). Un masterpiece della fantascienza di casa nostra è “Terrore nello Spazio” di Mario Bava, film degli Anni Sessanta: se lo si confronta con “Alien” di Ridley Scott…beh, parlano da soli».
Il “fantacinema” italiano degli Anni Ottanta è quantomeno caratterizzato da alcune colonne sonore di spessore: i lavori di Claudio Simonetti, di Walter Rizzati, di Guido & Maurizio De Angelis. Si tratta di musiche anch’esse derivative –principalmente dallo stile elettronico di John Carpenter, ancora lui- ma che vengono sovente ristampate su cd e ricercate dagli appassionati.
«In effetti la questione colonne sonore è interessante, ma in riferimento a tutto il cinema commerciale e “di genere” italiano: mi vengono in mente anche i lavori di Piero Umiliani e di Piero Piccioni per gli “spy movie” nostrani degli Anni Sessanta, per esempio. Assai spesso le colonne sonore di quei film “alla James Bond”, ma anche dei “poliziotteschi” o degli “spaghetti western” sono di ottimo livello e sono maggiormente “da salvare” rispetto ai film stessi. Nel “fantacinema”, in effetti, il riferimento ricorrente è Carpenter e la musica elettronica “da film” di quegli anni. Sì, anche quelle colonne sonore sono quasi sempre di buon livello, se non ottime. Vengono spesso ristampate e ricercate dagli appassionati di oggi, non solo in virtù della riscoperta del cinema “di genere” italiano, ma perché sono molto godibili, a prescindere se si sia visto il film o meno».
C’è un attore simbolo del “fantacinema italiano” degli Anni Ottanta? Forse George Eastman?
«Il grande George Eastman era infatti assai presente, sia come attore caratterista sia come sceneggiatore, in tanto cinema italiano, e non solo “di genere”. Si tratta tuttavia di un personaggio “per addetti ai lavori”; l’attore più riconoscibile per quel genere è a mio avviso Mark Gregory, al secolo Marco Di Gregorio, un ragazzino palestrato romano (protagonista de “1990: I Guerrieri del Bronx” e “Fuga dal Bronx” di Enzo G. Castellari, che lo scoprì): non era quel che si dice “un grande interprete”, ma aveva una presenza scenica e una faccia che funzionavano. Infatti, fece anche altri film, fra i quali i tre “Thunder”, che erano un po’ la risposta italiana a “Rambo”. Non a caso l’“action” bellico è un po’ il secondo genere forte di certe produzioni italiane degli Anni Ottanta, anche se molti dei titoli finirono -come accennavo- direttamente nell’home video e alcuni altri sono inediti in Italia».