(di Paola D’Agnone) Le donne dirigono film sin dagli albori della Settima arte, eppure solo di recente il mondo dell’audiovisivo sta offrendo il giusto spazio alla presenza femminile nelle varie rassegne cinematografiche.

Al Festival di Cannes del 2019 le registe in concorso con i loro film erano quattro (Celine Sciamma, Justine Triet, Mati Diop e Jessica Hausner) e la Notte degli Oscar 2020 ha visto Greta Gerwig (nella foto) competere contro soli uomini.

Alla 77. edizione della Mostra Internazionale di Venezia ben otto opere in concorso su un totale di diciotto erano dirette da donne (Susanna Nicchiarelli, Emma Dante, Mona Fastvold, Nicole Garcia, Julia Von Heinz, Malgorzata Szumowska, Chloé Zhao, Jasmila Zbanic).

È assurdo pensare, però, che l’unica donna nella storia del cinema ad aver vinto un Oscar per la regia sia stata Kathryn Bigelow con The Hurt Locker. D’altro canto le candidature per le registe in questa categoria arrivano difficilmente. Ma i tempi cambiano e anche i più importanti festival internazionali hanno iniziato a sentire che è il momento di dare spazio a chi c’è sempre stato, ma semplicemente non ha avuto la possibilità di farsi notare.

Questo maggiore spirito inclusivo dei più importanti festival internazionali non è casuale. Secondo uno studio recente, in Europa, tra il 2015 e il 2018, la percentuale di registe che hanno girato almeno un film è del 22%, mentre in Italia solo il 12% dei film a finanziamento pubblico è stato diretto da donne. Questo ha posto una questione importante: come incentivare il mondo del cinema a dare fiducia alle registe? Cambiare le regole dei maggiori festival internazionali sembra essere uno dei primi passi, e quindi proprio per questo negli ultimi anni sono entrate in gioco le “quote rosa” nei più importanti concorsi.

Il Torino Film Festival, ad esempio, nell’ultima edizione tenutasi dal 20 al 28 Novembre ha applicato la politica internazionale del “50/50 by 2020” lanciata dal Toronto Film Festival. Gli Oscar, invece, hanno recentemente introdotto una nuova regola, in vigore dal 2024, che inserisce tra i requisiti dei film candidati l’obbligo di avere, tra attori, trama e cast tecnico e promozionale, una percentuale minima di appartenenti a gruppi sottorappresentati, tra cui le donne. Questo intervento si è reso necessario perché in quella che è la gerarchia di un set si è sempre ricalcato il modello patriarcale seguito dalla società, dove il regista, inequivocabilmente uomo, ha il potere, e la donna non può essere altro che l’assistente o la segretaria di edizione, o la sceneggiatrice ma con grandi limitazioni creative.

La questione quote rosa ha scatenato un grande dibattito. C’è chi parla di politically correct, dimenticandosi di quanto siano invece necessarie, perché il cambiamento non avviene da sé, bisogna incoraggiarlo con questi piccoli accorgimenti. Sarebbe bello pensare che il merito possa essere l’unica discriminante nel criterio di selezione di un progetto da finanziare o di un film da selezionare per un festival, ma è anche utopistico, perché l’arte non è una materia oggettiva e non è così semplice scardinare un sistema che è da sempre così. Nel corso della 76. Edizione della Mostra Internazionale del cinema di Venezia, Lucrecia Martel si è espressa in merito alla questione: «Non è mai soddisfacente il discorso delle quote, ma credo che non ci siano altre possibilità. Non credo ci sia una forma più pertinente. A me non piace questa formula, ma non conosco nessun altro sistema per obbligare questa industria a pensare in questa direzione».

Guardando soprattutto vecchi film, ci si rende conto che le storie sono raccontate sempre da un unico punto di vista: quello degli uomini. Le più eminenti personalità del cinema sono infatti uomini, che non hanno gli strumenti o la voglia di comprendere a fondo l’universo femminile ma lo raccontano ugualmente. Finalmente, però, le donne hanno lo spazio per narrare le storie dal loro punto di vista. Prima tra tutte a essersi fatta notare negli ultimi anni è la già citata Greta Gerwig, che ha esordito alla regia con Lady Bird, candidato agli Oscar nel 2018, per poi evolversi con Piccole donne, rivisitazione del classico della Alcott che le ha fatto guadagnare la candidatura per la Miglior Sceneggiatura non originale agli Oscar 2020. Ma la Gerwig tanto nuova in questo ambiente non era, poiché nel 2008 ha co-diretto Nights and Weekends con Joe Swanberg ed è una sceneggiatrice e attrice affermata. Proprio questa sua conoscenza così totale del mondo del cinema la fa essere una regista capace di un grande occhio d’insieme.

È uno sguardo interessante anche quello di Mati Diop. La regista franco- senegalese è la prima donna nera a essere candidata con un suo film nel 2019 a Cannes, dove ha presentato Atlantique, opera che prende spunto da un’esperienza autobiografica che l’ha portata a esplorare le sue origini. “Come ragazza di razza mista, c’è sempre una parte visibile e una invisibile di te; c’è un posto che abiti e un posto che diserti”, ha dichiarato, confessando le complessità dell’esperienza di riscoperta che ha affrontato nel film.

Ancora dalla Croisette arriva Celine Sciamma, che attraverso le immagini che imprime sulla pellicola con pennellate d’autore, dipinge i contorni di un’intensa storia d’amore saffico nel suo ultimo film, Ritratto della giovane in fiamme, che ha fatto sognare tutto il mondo. La regista francese non si era ancora espressa al meglio nelle sue precedenti pellicole ed è esplosa con quest’ultima opera, che ha curato maniacalmente dalla sceneggiatura piena di semine e raccolte interessanti, alle immagini ispirate a quadri famosi, conquistando un posto tra i grandi del cinema internazionale.

Questa massiccia presenza femminile dietro la macchina da presa sembra del tutto nuova, ma, come detto in precedenza, non è così, perché le registe sono sempre esistite, solo che la storia ha deciso di dimenticarle. Basti pensare a personalità come Alice Guy (foto sopra), regista e produttrice molto attiva nei primi vent’anni della storia del cinema, che ha realizzato circa mille film, i quali furono quasi sempre attribuiti a uomini, generalmente suoi assistenti sul set. Altre registe, pur dovendo faticare, sono state in seguito più fortunate: ricordiamo le nostre Lina Wertmuller e Liliana Cavani, ma anche le grandi Agnès Varda, Chantal AckermanJane Campion (Palma d’oro a Cannes e Oscar per la sceneggiatura di Lezioni di piano nel 1993). Più recentemente invece meritano una segnalazione Alice Rohrwacher e la statunitense Sofia Coppola, figlia d’arte del regista italo-americano Francis Ford.

Per un lungo periodo, prima che l’industria del cinema iniziasse a dare spazio alle donne, le registe hanno cercato altre strade per esprimersi, come spiega Callisto McNulty nel suo documentario Delphine et Carole (foto sopra). Le due protagoniste raccontano che le case di produzione non davano loro fiducia per la realizzazione di un film e dunque il documentario era l’unico mezzo espressivo che restava alle donne per raccontare storie di femministe che altrimenti nessuno avrebbe ricordato. Tutto ciò grazie alla prima videocamera commercializzata dalla Sony nel 1967. Economico, possibile e necessario, tutto ciò che è sempre stato il cinema per le donne. Ma adesso qualcosa sta cambiando, e le registe di tutto il mondo possono sognare in grande, nella speranza di raggiungere finalmente la parità.