In quel tempo, un giovanissimo sindacalista catalano di nome Enrique Irazoqui, fervente comunista rivoluzionario, si trovava in missione sul suolo italico. Il suo incarico era quello di accendere nella sinistra italiana la fiamma di un provvidenziale interesse sulla situazione delle università spagnole oppresse dalla dittatura franchista. Pier Paolo Pasolini lo incontrò e cambiò la vita, non degli atenei, ma la sua, quella del giovane Enrique, offrendogli la parte di Gesù nell’incredibile film che sarebbe diventato Il Vangelo secondo Matteo”. La scelta, coraggiosa al limite dell’incoscienza, fu davvero guidata da un entità soprannaturale: il volto del ragazzo di Barcellona illumina il film, regalando al Cristo una dimensione in cui miseria e nobiltà, semplicità e mistero, umano e divino convivono con una naturalezza mai più trovata, nella storia del cinema.

Pasolini trovò la sua Gerusalemme nei Sassi di Matera, rivelandone la straordinaria esistenza all’Italia intera, che col consueto, congruo ritardo ne fece un vanto nazionale. Utilizzò gente di strada e poeti, i suoi amici più cari, affidando loro ruoli indimenticabili, e persino la sua amatissima madre Susanna, nella parte della più dolente Madonna vista sul grande schermo, forse guidato da un oscuro presentimento sulla tragedia che avrebbe vissuto lui, Pier Paolo, in prima persona, poco più di dieci anni dopo.

Il mosaico è completato da una colonna sonora che definire sorprendente è riduttivo, dal momento che le sue irruzioni nella pellicola negano il concetto stesso di colonna sonora, e rimarranno per sempre impresse nella mente dell’adolescente che ero quando vidi, accompagnato da mia madre, il film.

Mio padre era molto scettico, su Pasolini, e fu rassicurato solo dall’assegnazione al film di un importante premio da parte della critica cattolica. Mia madre invece, da sempre affascinata dalla figura del Cristo, adorò il film e, ne sono convinto, da allora il suo Gesù ebbe per sempre i lineamenti dolci e severi del ragazzo Enrique, diventato nel frattempo mio amico virtuale: per i miracoli, oggi, internet non si batte.

E a proposito di liturgia e miracoli, nel 1964 rischiò di accadere l’incredibile.

Un ragazzo romano di diciannove anni, aspirante cantante col curioso nome di Bobby Solo, rischiò di sbancare il Festival di Sanremo, fino allora appannaggio dei mostri sacri Pizzi, Villa, Tajoli e Modugno.

La canzone la compone lui, con l’aiuto di Mogol, ed è semplice semplice, l’eterna storia di un rimpianto amoroso. Ma va dritta al cuore del sensibile pubblico italiano, creando in particolare un’inedita alleanza tra mamme e giovani.

Lui, Bobby, è una vera sagoma. Imita Elvis Presley senza il minimo pudore, col favore di un timbro vocale piuttosto simile, omette di esibirsi nei colpi d’anca del “King” in quanto probabilmente non all’altezza, e poi per quello Adriano Celentano era anni luce avanti allo stesso Presley. Colto da laringite, canta scandalosamente in playback, però ha l’idea di truccarsi gli occhi con un filo di rimmel, destando sconcerto e scalpore nell’esercito dei maschi adulti e forse anche del suo compagno di avventura al Festival. Chi era? Lo ricordano in pochi. Era il leggendario Frankie Laine, interprete della mitica Do Not Forsake Me, Oh My Darling, fedele compagna di Gary Cooper e Grace Kelly in un torrido Mezzogiorno di Fuoco.

Il Festival lo vince, a sorpresa, la tenera Gigliola Cinquetti, Bobby e Frankie non arrivano nemmeno in finale. Però il disco di Una lacrima sul viso vende due milioni di copie, conquistando l’Europa.

Dimenticavo. Perché quel nome strano e intrigante? Il colonnello Satti, padre di Bobby, disse per telefono alla segretaria della casa discografica che il nome d’arte di suo figlio Roberto sarebbe stato Bobby e basta. “Bobby solo, ha capito?” Non aveva capito, la segretaria. Inoltre, quando c’è di mezzo Elvis, c’è sempre anche un colonnello, nei paraggi.