Non un’annata memorabile per il cinema, il 1985. Cerca e ricerca, dopo aver parlato del primo, delizioso film di Madonna, restano impresse nella memoria poche pellicole. Anni da bere, si dirà, in cui la voglia di divertirsi prevaleva su pensieri seri e opprimenti, tipo l’idea di programmare un futuro accettabile. Come capita, nell’America di Reagan, al ragazzo Marty McFly, piuttosto soddisfatto del suo presente ma costretto da circostanze assai bizzarre a misurarsi con un passato che non conosce: quello delle sue radici. Ed è obbligato a maneggiarle con estrema cura, pena il forte rischio di alterarle irrimediabilmente e con esse le leggi spazio-temporali che governano il mondo. È Ritorno al futuro, capolavoro di Robert Zemeckis con un pirotecnico Michael J. Fox, costantemente in equilibrio tra il ruolo di raddrizzatore di torti e quello di potenziale demolitore, ancorché involontario, della storia del mondo o almeno di se stesso e della sua famiglia. Sceneggiatura da urlo, precisa e puntuale come l’orologio del municipio di Hill Valley, decisivo per lo snodo cruciale della storia. Impossibile non citare l’allucinato Christopher Lloyd, oggi ancor valido attore ultraottantenne, capace di regalare al film la follia dello scienziato Emmet “Doc” Brown, senza il quale niente di quanto ci ha deliziato quella sera, in un cinema che non ricordo e che probabilmente non esiste più, sarebbe stato possibile.
E meno male che Marty Mc Fly, nelle sue scorribande nel tempo (generatrici di decine di tentativi di imitazione per lo più banali e squallidi), si è ricordato tra le altre cose di inventare il rock come fenomeno planetario, suonando con piglio da navigato frontman del futuro Johnny B. Goode, assieme a un allibito Mervin Berry, cugino di Chuck. Altrimenti tutti noi non saremmo quello che siamo oggi, volenti o nolenti.
Jim Kerr, per esempio, non avrebbe probabilmente mai pensato a dar vita, nella piovosa Glasgow, a un gruppo come i Simple Minds, trascinante e raffinato portabandiera del vecchio rock antagonista della dilagante musica elettronica del tempo. Don’t you (Forget about me) canta l’appassionato Jim nella canzone simbolo del gruppo, ed è davvero impossibile dimenticare l’alchimia semplice ma avvolgente di questo pezzo storico. E pensare che Kerr e compagni lo odiavano, lo consideravano poco più di una “marchetta” commerciale, rifiutata in precedenza da gente come Billy Idol e Bryan Ferry. Alla fine, convinti dalla casa discografica, i ragazzi dedicarono tre ore all’incisione della canzone e tanti saluti. Le vie del rock, si sa, sono infinite e a tutt’oggi Don’t you resta il pezzo che le moltitudini associano al gruppo scozzese più di qualsiasi altro.
Due parole sul rapporto tra i Simple Minds e l’Italia, che li ha sempre molto apprezzati: il batterista Mel Gaynor, per me fondamentale nella sua performance misurata ma decisiva di Don’t you, ha lavorato in seguito perfino con Mango. Mentre il simpatico folletto Kerr alterna, nel terzo millennio, la sua attività di musicista con quella di costruttore e proprietario di un albergo a Taormina, proprio alle falde dell’Etna, dove vive stabilmente. Magico Jim.