Prende il via da questa settimana una nuova rubrica, Il varco, riflessioni sul cinema a cura di Eugenia Chierico. In questo primo appuntamento si parla di frontiere e confini.

(di Eugenia Chierico) Gli schermi sono membrane che si frappongono tra noi e il mondo, proteggendoci e aprendoci un varco. L’attraversamento dei confini sullo schermo si traduce in antidoto all’idea di frontiera.

Il film inizia. Un rettangolo luminoso si disegna nel buio della sala. È una porta, aperta sulla Monument Valley. La macchina da presa segue una figura femminile e abbandona con lei l’oscurità per varcare la soglia della luce. All’orizzonte “la macchina da presa inquadra e segue un cavaliere solitario. È Ethan Edwards (John Wayne), un uomo duro come il paese che sta attraversando” così recita la sceneggiatura del film. Parliamo di Sentieri Selvaggi (1956), nel quale, già dalle prime sequenze, il regista John Ford annuncia che il motivo dell’entrare e uscire, dell’oltrepassare e dell’attraversare caratterizzerà l’intera pellicola. Il genere western, d’altronde, ha messo costantemente in scena il tema del confine e il suo superamento come fondamenti della cultura popolare nordamericana: trapassi e spazi liminari, un continuo cambio di luoghi, in senso sia letterale che metaforico, fra appartenenza razziale e familiare, tra natura e cultura, prateria e giardino, convinzioni e azioni. E non passeranno molti anni dal momento in cui John Ford ci faceva varcare il limes assieme al protagonista, che in Europa s’innalzerà un Muro, simbolo di un mondo diviso, testimone di separazioni forzate e luogo di confinamento tra realtà vicine, divenute lontanissime.

Sebbene siano passati diversi decenni dalla caduta del Muro di Berlino, l’epoca contemporanea vede contrapporsi, alla massima libertà di movimento e connessione, un senso di insicurezza e di minaccia diffuso che ha visto moltiplicare l’edificazione di barriere e confini, fisici o semplicemente immaginari, non solo in Europa ma in tutto il mondo. Giorno dopo giorno scopriamo la letalità delle frontiere e può sembrare quasi superfluo mettere in relazione i confini internazionali con l’espressione artistica e cinematografica, seppure queste, ne sono le principali testimoni. È il caso di Border Farm (2011), diretto da Raymond Marlowe e Thenjiwe Nkosi, un film girato in Sudafrica contro la barriera frontaliera che separa il Paese dallo Zimbabwe. La sceneggiatura e i dialoghi sono stati elaborati dalla troupe, formata da contadini locali. Questi evocano i pericoli dell’attraversamento del fiume-frontiera e ne recitano il passaggio: il risultato è descritto dagli autori come un docudrama che non filma il confine, ma la maniera in cui coloro che hanno vissuto l’attraversamento lo recitano.

Il cinema, dunque, si spinge oltre la narrazione classica. Lo sa bene Gianfranco Rosi, il quale, in Fuocoammare (2016), racconta, attraverso la forza di un lungometraggio in cui realtà e finzione s’incontrano e fondono, la tragedia delle morti nel Mediterraneo, l’eroismo dell’accoglienza di un’isola singolare come Lampedusa: un microcosmo chiuso, con una separazione netta tra l’inferno del mare e la quotidianità di chi lo vive. Rosi ci invita ad abitare su quest’isola per tutta la durata del film, facendo i conti con il segreto impulso a rimuovere ciò che non vorremmo conoscere.

Allo stesso modo, nel cortometraggio Zona Morta (2016), Daniele Costa racconta la quotidianità di un ragazzo senegalese, immigrato a Venezia e costretto a nove anni di clandestinità a causa delle lentezze della burocrazia. Emerge così la dicotomia tra spazio vivo e spazio morto: la capanna 27 dove il giovane africano dorme, l’orto dove trova ristoro dopo il lavoro, la capanna di fronte al mare dove riposa. Il linguaggio cinematografico diviene uno spazio culturale vitale in cui il rapporto tra i confini e l’identità viene rinegoziato: la soglia dello spettatore è uno schermo, un concetto corporeo che rimanda a quello di varcare un limite. Egli entra metaforicamente in un altro mondo, percependo il proprio come estraneo.

Nel film Il prigioniero coreano (2016) di Kim Ki-duk  lo spettatore, assieme al pescatore nordcoreano Nam Chul-woo, finisce per andare alla deriva verso la Corea del Sud a causa della rottura del motore della sua barca.

Analogamente accade in Torna a casa, Jimi! (2019) di Marios Piperides, dove il cane di Yannis, che abita a Nicosia, unica capitale al mondo ancora oggi divisa, attraversa accidentalmente la zona cuscinetto dell’Onu diventando subito merce di contrabbando poiché, secondo la legge, nessun animale, pianta o prodotto può essere trasferito dal settore greco di Cipro a quello turco e viceversa.

Il cinema dunque non solo apre un varco, ma ci conferisce un equipaggiamento per poter attraversare le frontiere, per poter valicare i muri. I confini cambiano con estrema rapidità: basterebbe un risveglio per vedere il mondo completamente stravolto, come nel meraviglioso Good bye, Lenin! (2003) di Wolfgang Becker, e come sta accadendo a seguito dell’emergenza Covid-19, che ha imposto la temporanea sospensione dell’area Schengen. E se la risposta all’emergenza è quella di erigere muri, la barriera fisica non farà che esaltare l’utopia della ricongiunzione che ispirerà il cinema, creando storie esistenziali, drammi e commedie legate al sentimento della nostalgia e dell’attesa, valicando e frantumando il crinale imposto da quella linea di confine.