(di Eugenia Chierico) Tante finestre con tante vite e mondi all’interno fino alle piccole celle elettroniche tra le nostre mani. Nei tempi di #iorestoacasa, le città ci parlano attraverso i sipari in balcone che si moltiplicano anche digitalmente. Uno sguardo su questo elemento scenografico dove i punti di osservazione si moltiplicano per generare quadri, dentro i quali scene di vita quotidiana si trasformano in opere d’arte.

Uno spazio intimo, domestico: una stanza con una finestra che, come un sipario, dischiude le sue tende in bambù mostrando un cortile e i balconi dei palazzi di fronte. Jeffries, l’eroe de La finestra sul cortile, di Alfred Hitchcock (1954) è relegato in casa su di una sedia a rotelle: passa giorni e notti osservando i suoi vicini (che entrano ed escono dalle cornici delle finestre-schermo) e ciò che accade nei loro spazi domestici, privati. Il suo sguardo proibito può interpretare ciò che vede, senza poter intervenire direttamente a influenzare lo svolgersi della vicenda. E con lui anche noi, irretiti nel suo punto di vista, nella sua mancanza di libertà e nelle sue opzioni limitate restiamo intrappolati nella sua ossessione. Alberto Moravia, quando scrive il libro L’uomo che guarda, parla del voyeurismo come l’origine di gran parte della narrativa e, soprattutto, del cinema. Non è un caso che Hitchcock, attraverso il personaggio di Jeff, propone la sua riflessione sul rapporto spettatoriale e sul voyeurismo dove la finestra si fa connessione e soglia tra interno-esterno che è la medesima dello spettatore-schermo. Non è arduo infatti rintracciare nel film quegli elementi che rinviano esplicitamente a componenti del cinema: il protagonista si serve spesso del binocolo, di una macchina da presa a focale lunga e del teleobiettivo.

Il formato rettangolare delle finestre, visibili sulla facciata del palazzo di fronte casa di Jeff, evoca l’inquadratura, così come accade anche nel film L’occhio che uccide, di Michael Powell (1960), dove ciò che viene girato dal protagonista Mark Lewis, cineoperatore e voyeur, è rappresentato come una vera e propria finestra.

Come in Hitchcock, ad aprire il film Parasite, Bong Joon-ho (2019), è l’inquadratura di una lunga finestra stretta e di forma rettangolare, suddivisa da altri assi come vignette di un fumetto. Ma è anche uno schermo (o in questo caso uno specchio) che, a seconda se siamo dentro o fuori, rivela cose diverse in base ai punti di vista: schermi-telecamere interscambiabili come sono interscambiabili le famiglie e gli sguardi, le prospettive.

Gianfranco Rosi, per la realizzazione de Il sacro Gra (2013) si serve di finestre per raccontare i microcosmi inimmaginabili che si celano all’interno dell’anello del Grande Raccordo di Roma. Le vite di altri vengono spesso riprese tutte nello stesso modo, con la macchina da presa che rimane fuori, sulla finestra, pronta a cogliere scarti di caldissima umanità: un monolocale abitato da un nobile piemontese decaduto con una figlia sempre al computer e forse alla ricerca dell’amore, una signora che non sopporta il silenzio del luogo privo di bambini e di esseri umani, e un deejay indiano sempre al lavoro.

Un film su un uomo che fa sullo schermo ciò che facciamo nel quotidiano: guardare attraverso una lente le vite private degli estranei. E, se la moltiplicazione delle finestre virtuali sul mondo ci ha permesso di portare le finestre a noi, in questo periodo di emergenza siamo costretti più che mai a ritornare a vivere una situazione differente, quella della dimensione domestica, della condivisione dello spazio vitale della finestra, del vicinato. Come accade in una potentissima sequenza aerea nelle banlieue de L’odio, Mathieu Kassovitz (1995) dove un deejay suona alla finestra Nique La Police, in tempi di #iorestoacasa gli italiani intonano la ricetta per reagire all’emergenza che li ha messi in quarantena.

L’importanza della finestra nell’ambito pittorico ha sempre teso a considerare lo stretto rapporto di questo elemento architettonico da cui si guarda e il sentimento dell’attesa, ora riempita di canzoni, di sguardi. Marcel Proust nel libro Alla ricerca del tempo perduto osserva dall’interno di una finestra altre finestre chiuse – rettangoli messi sotto vetro – le quali costituiscono a loro volta punti di osservazione per altre finestre, altri quadri, dentro i quali scene di vita quotidiana si trasformano in opere d’arte: una mostra di cento quadri olandesi. E così le città ci parlano attraverso i sipari in balcone che si moltiplicano anche digitalmente, sui social network con video che danno il libero accesso a questi spazi privati, lasciando che l’altro li renda propri e condivisibili. Non è un caso che applicazioni come House Party, in cui ci si incontra con i propri amici attraverso videochiamate e si può passare da una stanza all’altra, hanno conosciuto un boom di download nelle ultime settimane. Vivere nella dimensione iperprotetta delle nostre stanze, ma connessi attraverso queste finestre-schermo: la necessità di stare a casa ha marcato maggiormente la società-rete riconfigurando gli spazi privati che creano ora una mappatura di spazi di trasparenza, dove il nostro sguardo si fa onniveggente.

Ma se nel lungometraggio di Hitchcock ci troviamo dinanzi a una situazione archetipica del guardare le persone che non sanno di essere osservate, qui siamo noi stessi a concedere il benvenuto, attraverso l’utilizzo della lente dello smartphone, a questi (non) spazi privati.

Ciò permette di appropriarci di queste realtà, come fa Taesuk, protagonista del film Ferro 3 – La casa vuota, Kim Ki-Duk (2004), che entra nelle case perché sono vuote ma non disabitate, riempiendo di un proprio quotidiano una dimora che viene temporaneamente abbandonata. Non è voyeur né un senzatetto. Più semplicemente, probabilmente come noi, è alla ricerca di pace, e trova armonia in uno spazio vuoto.