Nel 1998 Peter Weir torna grande. Il regista di film come Picnic a Hanging Rock, Gli anni spezzati, L’attimo fuggente, mio aureo punto di riferimento negli anni Ottanta, sfodera questa storia fenomenale, visionaria, anticipatrice degli anni bui che stanno per capitarci tra capo e collo assieme al terzo millennio agognato e temuto: la storia tragicomica di Truman Burbank, americano medio sui trent’anni, onesto lavoratore, carattere allegro e positivo, mogliettina bionda, residente sull’isola felice di Seahaven in una di quelle casette stile disneyano. Solo che, a Seahaven, niente è come sembra: la vita di Truman è in realtà un avveniristico reality show di cui è protagonista inconsapevole. Jim Carrey dimostra di essere un attore vero, nei panni di questo personaggio che non esito a includere tra i più significativi del cinema contemporaneo, diretto discendente del Grande Fratello orwelliano. Il gioco di specchi che si materializza sotto gli occhi di noi spettatori veri arriva, in crescendo, a metterci sullo stesso piano di quelli del Truman Show del film. Loro trepidanti per le sorti del protagonista, noi per la sua liberazione da un incubo televisivo che viviamo sempre più come nostro. Bisognerebbe proprio avere la stessa determinazione di Truman Burbank per scuoterci dall’incantesimo malvagio che, volenti o nolenti, ci è stato lanciato contro. A giudicare da quanto è accaduto nei decenni successivi al film di Weir, col trionfo di internet e di social network sempre più invadenti e totalizzanti, non ci siamo riusciti. Anzi, siamo peggiorati di molto.
Per fortuna ci sono ancora artisti in grado di parlarci in modo efficace e diretto, come per esempio Vasco Rossi.
Semplicità, ecco l’arma in più di Vasco. La capacità di comporre musica lineare ma profonda, sparata dritto in fondo all’anima. E di scrivere testi all’altezza, se non più intensi, appassionati fino a diventare lancinanti, se serve. È il caso di questa canzone come di molte altre. Certo, Quanti anni hai tocca le corde del vostro anziano cronista per motivi anche anagrafici, lo ammetto. Ma quel modo unico di raccontare la vita, quel lessico che è nostro, di tutti noi poveri umani nella tempesta dell’ordinaria esistenza è il vero motivo per cui Vasco è in grado di parlare alle moltitudini. Perché le moltitudini lo capiscono, lo amano, lo ringraziano delle poesie popolari che regala loro senza risparmiarsi, dei consigli magari un po’ al limite, degli esempi discutibili, di quel modo di essere un po’ così. Perché le moltitudini non vogliono la predica perfetta, il modello inarrivabile, eh no. Le moltitudini, insomma noi, vogliono un amico che ha sbagliato, come noi, e non ci giudica dall’alto di un podio. Ci dice due parole. Due sole, ma quelle giuste.