Nel quartiere romano dove sono nato, Piazza Bologna, c’è un fabbricato enorme, che tutti conoscono come Palazzo Federici, dal nome dell’impresa che lo costruì negli anni ’30. Un alveare popolare che occupa un intero isolato, con addirittura diciotto scale e un cortile enorme, abbellito da fontane e piante. Proprio lì Ettore Scola ambienta la storia minima ed esemplare di Antonietta e Gabriele. Lei è Sophia Loren, moglie di un ottuso fascistone e ammiratrice del duce, madre sfiorita di sei figli, lui Marcello Mastroianni, annunciatore antifascista dell’Eiar licenziato per omosessualità. Il loro incontro avviene nel palazzone dove entrambi abitano, svuotato dall’arrivo in pompa magna di Hitler in visita ufficiale per la prima volta in Italia. La scintilla scocca tra loro, imprevedibile e assurda come è sempre l’amore nella sua apparizione più pura: prendono il caffè nella cucina di Antonietta, si scambiano cortesie, litigano, si inseguono sul terrazzo condominiale tra i panni stesi, mentre echeggia stentorea la radiocronaca della storica giornata.

Una giornata particolare, quel 6 maggio 1938, ma non per la retorica nazifascista. Il filo che il destino ha deciso di tessere vola ben più alto: Gabriele viene portato al confino dalla polizia, Antonietta rimane con la sua pena e con la copia de I tre moschettieri avuta in regalo da lui. Forse il suo sacrificio non sarà stato inutile, l’intelligente e sensibile Antonietta avrà modo, magari, di pensare un futuro diverso. Altrettanto non si può dire per Alessandra Mussolini, che interpreta nel film la fascistissima figlia Maria Luisa. Menzione d’onore per la fotografia di Pasqualino De Sanctis: si inventa per questa pellicola un colore tra il b/n e il virato seppia, indimenticabile.

In quell’anno tumultuoso, il cordoglio per la prematura scomparsa di quelli che i veri sapienti ritengono essere stati i veri Genesis, ossia la band originale con Peter Gabriel sul ponte di comando, fu parzialmente lenito dall’arrivo, nell’etere, di questa ballata acustica di rara fascinazione romantica. Gabriel la compose, pare, a seguito di un’esperienza dai tratti mistici avuta sulla collina del titolo, Solsbury Hill, nel Somerset, proprio quella che vediamo in foto, decidendo a un certo punto di continuare da solo la sua ricerca musicale a 360 gradi, ottenendo risultati sempre all’altezza del suo genio indiscusso.

Gabriel c’è ancora, si pensò, e l’ascolto dell’intero album lo confermò appieno. C’è ancora un futuro con Peter, e il tempo diede ragione ai seguaci di questo profeta della musica nuova, mai sazio di nuovi sentieri da esplorare per il mondo intero, sempre con animo aperto a tutto ciò che la vita propone.

Grab your things, I’ve come to take you home“, intima al nostro una voce misteriosa: “Raccogli le tue cose, che ti porto a casa”. Non essere troppo attaccato ai beni materiali, è il messaggio. Lascia andare i Genesis, lascia andare tutto, quando è il momento di farlo, sii pronto ad accettare l’inevitabile. Come l’abbiamo accettato noi, caro Peter.

Ricordo con tenerezza l’esibizione, maggio 1993, nel gelo del Palaghiaccio di Marino, vicino Roma, quando si presentò sul palco insieme ai suoi genitori. “Mio padre e mia madre” disse in italiano, a braccetto con i suoi cari che lo avevano seguito nel tour, omaggiandoli nel Paese che lo ha sempre amato e seguito più di ogni altro, a partire dalla storica esibizione del Piper, nel 1972.  Era scoppiato l’amore col nostro Paese, che dura ancora oggi.