A vent’anni noi ragazzetti di Roma andavamo pazzi per la nostra città. Forse perché non avevamo girato ancora il mondo, forse perché fino ai fatidici anni Settanta era veramente strepitosa. Forse perché era, con le sue rovine antiche, il centro storico rinascimentale più grande del mondo, i parchi pubblici rigogliosi, le suggestioni mistiche di San Pietro e quelle metafisiche del Vittoriano e dell’EUR, nient’altro che una Disneyland di travertino, mattoni e sangue costruita da duemila anni di Storia. Un parco divertimenti incredibile, a disposizione nostra e dei turisti che se ne tornavano pochi giorni dopo a casa col magone. O che arrivavano dalla provincia, come Federico Fellini, per farsela amante generosa, diffidente e puttana. Roma.

E noi ragazzetti romani abbiamo amato questo film di Fellini, che ci raffigurava spietatamente, per quello che eravamo e fieri di esserlo, alla faccia di tutti gli invidiosi.

Il casellante dell’autostrada, attaccato alla radiolina mormora, sconsolato: “Scaratti ala tattica? Ber colpo. E quanno vincemo?”, ignorando l’ingresso della fiumana motorizzata in città, sul raccordo anulare che pullula di mignotte e marchettari, oppresso dalla fumisteria dei gas di scarico in un ingorgo tossico che, a immagine della città, accetta tutto democraticamente: macchine, carretti, pullman di tifosi, gestacci osceni e perfino il cavallo scosso, in una fanga pasoliniana da girone infernale sotto una pioggia acida e incessante, che anticipa di un decennio quella di Blade Runner. Ed è solo l’inizio della sarabanda, un album di immagini disordinate e struggenti, solenni e sguaiate,  che sembra non finire mai e che non ti saziano mai. I morti viventi dell’allucinante sfilata di moda ecclesiastica e l’allegria feroce della tavolata in strada, il cinismo-spettacolo nella platea del teatro della baraonda, l’ombra incombente della guerra e del fascismo. La matrona bistrata della via Appia, il volto inquieto e guardingo di Anna Magnani che rientra a casa di notte, la cavalcata dei motociclisti verso un futuro che non è dato conoscere ma che sembra aspettarci all’EUR, come una vaga promessa di morte.

Da un amore all’altro: la mia lunga storia con David Bowie comincia a casa di Alberto De Angelis. Chi è, direte voi. Un amico che, pressoché unico a Roma e dintorni, portava pantaloni larghissimi sul tipo di quelli che ha il Duke sul retro copertina di Hunky Dory, già nel 1972. Un bel coraggio, Alberto, anche se non parliamo dei costumi di Ziggy Stardust, leggermente più azzardati, diciamo.

Colto da folgorazione, approfittai di un viaggio a Londra per imitare il mio amico, e mi presentai al ritorno sfoggiando una astonishing Tshirt gialla con faccia truccatissima di Bowie versione Aladdin’s Sane e suscitando subito ironiche e ingiustificate risatine sulle italiche spiagge.

Ziggy Stardust è il disco perfetto, viene quasi da dire che non c’è nemmeno da commentarlo. Sulle note di Starman ha preso il via il mio primo matrimonio, Five Years ha consumato le corde di varie mie chitarre, Lady Stardust i tasti di un paio di pianoforti domestici, e ho detto tutto. Ma le emozioni più violente me le ha sempre rilasciate il gioiello Moonage Daydream col suo folgorante incipit elettrico, del quale ringrazio anche il troppo sottovalutato Mick Ronson, chitarrista sopraffino e arrangiatore di suoni di categoria superiore.