Perfettamente consapevoli del fatto che ok, Blade Runner è, mutatis mutandis, la Bibbia, 1997 Fuga da NY mica è l’ultimo dei vangeli apocrifi, sia chiaro. In quanto a eroismo, intanto, il fighissimo Kurt Russell nei panni bendati del mito Snake Plissken non lo batte nessuno, tantomeno il piedipiatti spaziale Harrison Ford. Andateci un po’ voi, a recuperare il Presidente degli Stati Uniti rapito dalla peggior feccia e imprigionato chissà dove nella Manhattan trasformata in megacarcere di sicurezza, dove le pistole dettano legge e la vita vale meno di un nickel. Beh, lui ci va, atterrando sul terrazzo del World Trade Center ancora in piedi (in fondo, siamo nel 1997). Certo, Lee Van Cleef perfido come sempre gli ha mollato la fregatura, impiantandogli una bomba a orologeria in corpo, disinnescabile solo a missione tempestivamente compiuta, ma sono dettagli. Snake, in italiano Iena, Plissken è un veterano del Vietnam, ne ha viste e fatte di tutti i colori ma sotto la sua canotta nera pulsa ancora il cuore di un patriota. Diciamo a suo modo, magari.

Il supercarcere Manhattan è un vero spasso, in cui hanno trovato modo di vivere anche benino una serie di carogne simpatiche e belle  toste: “Mente” Harry Dean Stanton, ad esempio, il monumentale “Duca” Isaac Hayes e l’impagabile tassinaro Ernest Borgnine. Riuscirà Iena Plissken a compiere la missione in tempo per salvare l’America e, in allegato, la sua pellaccia? Dai che lo sapete.

Ce n’è voluto, di tempo. Diciamo una decina d’anni, cioè il consueto ritardo che per complicati motivi storici tocca, con impressionante puntualità, alla nostra Italia per assimilare e rielaborare novità e cambiamenti, ma alla fine anche noi abbiamo avuto il nostro inno generazionale: Siamo solo noi. E lo dobbiamo, non poteva essere altrimenti, all’unico vero rocker di spessore nato nei patrii confini: Vasco Rossi, per tutti Vasco, per pochi il Blasco, l’amico sconvolto, il fratellone che ti insulta mentre ti abbraccia piangendo.

E non dite che i tre monumentali accordi su cui è costruito questo inno, di più, questo manifesto generazionale, somigliano troppo a quelli di Baba ‘O Riley degli Who. Perché il rock è questo, è essenzialità di una base sonora elementare, sulla quale urlare al cielo anatemi e contumelie, magari poco sensati ma densi di verità primordiali. O almeno di sentimenti autentici. Questo è il rock, questo è Vasco Rossi. L’unico italiano che, nel corso dei secoli, ci ha portati in centomila a piangere e ridere in uno, cento, mille stadi strapieni, pronti al rito dell’accendino e del coro oceanico, la diciottenne disinibita accanto al sessantenne col codino grigio, ugualmente sconvolti e ugualmente senza più santi né eroi. Siamo solo noi riassume una delusione epocale, mettendoti al tappeto in tre minuti. Ma attenzione: per una qualche strana, misteriosa alchimia, poi ti svegli dal k.o. e la spugna mica l’hai gettata, anzi. L’anima, ecco il segreto dei veri rocker: sfatti, delusi, disperati, sconvolti ma con una spina dorsale indistruttibile, fatta di rullate e assoli interminabili ma agganciati a quell’ultima stilla di vita che brucia dentro, at both ends, direbbe Edna St. Vincent Millay, poetessa sublime del primo Novecento americano. Forse, pensandoci, la prima, vera rock girl della storia.