Al tempo avevo un quadernetto, anzi, un block notes dove mi segnavo tutti i film che andavo a vedere. Mi sa che da qualche parte ce l’ho ancora, ora che mi ci avete fatto pensare. A ogni film assegnavo un punteggio, da una a cinque “x”, eccellenza che nessuno mai raggiungeva. Cabaret prese 4 “x”, perché mi aveva incatenato, sognante, alla dura poltrona di legno del cinema “Bologna” per le due canoniche ore.
Lo avrei visto e rivisto all’infinito e non è escluso che lo feci almeno otto volte, passaggi televisivi inclusi.
Il domani è nostro. “Der morgige Tag ist mein”, cantava il giovanetto biondo nella memorabile scena in cui decine di pacifici tedeschi riuniti per una bevuta di birra campagnola, si alzano pian piano tutti in piedi a cantare, come un sol uomo, inconsapevoli di dar via libera, con quella canzone, alla più immane tragedia del secolo scorso. Cabaret spiega la nascita del nazismo meglio di mille libri di storia sull’argomento, a noi per primi. Noi fino ad allora abituati a inquadrare quegli anni terribili solo attraverso i documentari magniloquenti di Leni Riefenstahl, le immagini grottesche di Hitler e le sofferenze indicibili della guerra e dell’Olocausto, vedevamo scorrere sullo schermo una Berlino a colori, dove ci si divertiva, si amava, si viveva nell’ordinaria inconsapevolezza di ciò che sarebbe avvenuto di lì a poco.
Lei, Liza (allora dicevamo “Laiza”), attraverso l’indimenticabile Sally Bowles è diventata la star che è diventata, facendo innamorare una generazione, insieme al timido studente Michael York. Forse Liza Minnelli non ha mai più raggiunto le vette di Cabaret, ma provateci voi. Lui invece campa ancora. Ha a tutt’oggi 88 anni e solo nel 2015 si è dichiarato pubblicamente omosessuale. Joel Grey, attore inarrivabile, che hai fatto dopo Cabaret?
E Gerald Bostock, chi era invece costui? Secondo il St. Cleve Chronicle, immaginario giornale nato dalla fervida immaginazione dei Jethro Tull, un ragazzino saccente che tutti chiamano “Little Milton”, autore del poema Thick as a Brick. Ma è il solito scherzo del sarcastico gruppo di Ian Anderson, che con questo vinile raggiunge per me il vertice di una carriera leggendaria.
“Really don’t mind, if we set this one out…” e via con la suite tutta d’un fiato, dall’enigmatico arpeggio iniziale alla nuda voce di Ian, che chiude sommessamente la seconda parte. Nessuna interruzione era ammessa: a casa il tempo di voltare il disco, in macchina quello di girare la cassetta, entrambi consumati oltremisura. La coniugazione di uno strumento assai poco “rock” come il flauto traverso dell’istrionico Anderson con la chitarra esplosiva di Martin Barre più il tappeto sonoro della sezione ritimica, condita dagli interventi di Jeffrey “Hammond” Hammond alle tastiere sono il marchio di fabbrica dei Jethro Tull, band tra le più originali mai esistite. Ho rivisto Ian Anderson rifare Thick as a Brick per intero, a Roma, qualche anno fa. Perfetta, nessuna sbavatura. E lui, ancora dritto come un fuso, il vecchio airone su una gamba sola. Noi, in platea sbalorditi e rapiti dall’ammirazione.