Chissà perché, molti hanno idee poco chiare sulla paternità di Tutti a casa, capolavoro assoluto del cinema italiano. Nel senso che molti pensano che l’abbia firmato Mario Monicelli, altri Dino Risi. Invece è il gioiello principe di Luigi Comencini, un viaggio fra neorealismo e commedia all’italiana capace di raccontarci il momento cruciale del Novecento per il nostro Paese, sconfitto in guerra, confuso nelle idee ma ancora reattivo e disposto a uno scatto d’orgoglio in extremis.

Alberto Sordi giganteggia nella divisa, poi amaramente smessa, del tenente Innocenzi, costretto tra l’incudine di una diserzione forse salvifica e il martello del dovere militare. Il suo viaggio nell’Italia scioccata dall’armistizio dell’8 settembre 1943 vale più di cento documentari: attraverso lo smarrimento di un piccolo uomo, uno dei tanti cui toccò farsi carico della tragedia di un Paese intero, vinto e stremato dalla folle guerra fascista, Sordi e Comencini ci raccontano splendidamente e spietatamente vizi e debolezze degli italiani, fino alla catarsi, al gesto finalmente liberatorio dell’ormai ex tenente Innocenzi che imbraccia con orgoglio la mitragliatrice partigiana per far fuoco sui tedeschi, diventando protagonista delle quattro eroiche giornate di Napoli. Retorica? Assente. Piuttosto, sincerità e sentimento da vendere, grazie anche ad attori come Serge Reggiani, Eduardo De Filippo, Martin Balsam e tanti altri in stato di pura grazia. Fatelo vedere ai vostri bambini, a me è servito molto.

Come è servito anche ascoltare, con un certo stupore, i primi deliziosi dischi di quel geniaccio con nasone e capelli più lunghi di quanto usasse all’epoca in Italia, di nome Giorgio Gaber.

In particolare, se c’è stata una canzone rivoluzionaria, negli anni Sessanta italiani nuovi di zecca, per me è la Ballata del Cerutti. A chi mai, subìto il doloroso furto di una Lambretta (usata ma tenuta bene) poteva venire in mente di scriverci sopra una ballata, se non a Gaberschick Giorgio da Milano, professione agitatore culturale? E infatti lo scrisse lui, questo gioiellino che parla della Milano periferica, di un bar malfamato al Giambellino e di un balordo “vent’anni, biondo, mai una lira” che approfittando delle tenebre salta sulla Lambretta di Gaber e fila via a tutto gas. Il suo nome era Cerutti Gino, per l’appunto. Non vi dico il successo della canzone, almeno a casa mia. I miei fratelli grandi tutti impazziti per il Cerutti, e tutti in fondo contenti di apprendere, a fine storia, che il giudice “è stato buono”. Dopo tre mesi, probabilmente a San Vittore, il Gino se n’esce infatti con onore e torna al bar del Giambellino, più duro e rispettato che pria. Bravo. Grazie, Giorgio.

N.d.R. : la Lambretta della canzone è proprio quella della copertina del disco, uguale identica a quella con cui mio fratello mi veniva a prendere a scuola. Prima che gliela fregassero.