Certo, John G.Avildsen è un signor regista, chi lo nega. Ma se dici Rocky pensi per forza a lui, a Sylvester Stallone, che del personaggio è interprete multiplo e ossessivo, ideatore, sceneggiatore, regista e poi produttore milionario di una sfilza di sequel che sembra non dover finire mai.

Ma per me “Rocky” è uno solo, il capostipite. Un film perfetto, nel suo genere  favola americana gonfia di valori a stelle e strisce, primo fra tutti la leggenda che lega indissolubilmente il nuovo continente al nome di “Paese delle opportunità”. Se l’America lo sia veramente questo non si sa, ma è fuor di dubbio che il suo cinema ce lo fa credere veramente bene. Un film riuscito lo indovini dalla prima inquadratura, e quel Cristo che assiste ieratico, dal muro della palestra “Resurrection”, all’incontro scalcinato in cui l’immigrato Balboa si incazza per un colpo proibito e demolisce selvaggiamente il suo avversario è un’inquadratura almeno da Oscar popolare.

E poi avevo vent’anni, e a quell’età non si va tanto per il sottile. Troppe le scene memorabili di questo film per non amarlo svisceratamente, per non essere sempre all’angolo dello stallone italiano dal cuore generoso, in cerca di amore e gloria in una città, Philadelphia, che lo maltratta ma in fondo lo ama. Ama il suo ragazzone sgraziato, mandato al martirio contro lo splendente Apollo Creed, dopo mesi di allenamento coi quarti di bue. Ma attenzione, perché Rocky nel corpo a corpo non lo frega nessuno. E quando la scalinata del Philadelphia Museum of Art, all’inizio del suo training ruspante dannatamente faticosa e ostica, diventa una passeggiata di salute sulla musica trascinante di Bill Conti capiamo che sì, ce la può fare. E alla fine del match gridiamo e piangiamo con lui, uscendo dal cinema carichi e sicuri che la nostra Adriana è lì, da qualche parte, che ci aspetta.

Imprevedibile invece, anche se nell’aria si percepiva il bisogno di qualcosa di nuovo, il successo planetario di un gruppo inglese assai poco dotato musicalmente, campione di invettiva e strabuzzamento occhi in concerti puntualmente degeneranti  in rissa, con sputi, botte e insulti a go go. Loro sono i Sex Pistols, guidati dal folle Johnny Rotten, cantante e superstar per caso. L’astuto manager “situazionista” Malcolm McLaren fu il primo a capire che la voglia di punk, controcultura emergente acida e ribelle alla massima potenza, stava tracimando dai bassifondi inglesi ed era pronta a conquistare il mondo. Così inventa “La grande truffa del rock’n roll”: piazza strumenti elettrici essenziali in mano a quattro titolari di facce da galera niente male e li manda sul palco a fare casino. Risultato, “Never mind the bollocks” ( “Basta con le cazzate”, un programma chiaro e forte), primo ed unico album dei quattro scriteriati, fa il botto. Johnny Rotten grida, fuori di testa e  costantemente sull’orlo dell’attacco epilettico, un pezzo di nome Anarchy in the U.K. e  gioco è fatto: denunce per oltraggio di tutti i generi, scandali a ripetizione, due dischi di platino.