Devo riconoscerlo: vedere al cinema American Graffiti a vent’anni, avendo sotto casa ad aspettarti, fedele, una scattante Autobianchi A112 è stato un colpo di fortuna, ma di più, un privilegio raro. Il film, in fondo, partiva da un’idea semplice ma geniale: quattro amici, quattro ragazzi americani degli anni Sessanta affrontano l’ultima notte da liceali, prima del grande salto nella vita vera. Nei quattro il regista George Lucas, neanche trent’anni all’epoca, mette un pezzetto di tutti noi coetanei universali: un po’ della curiosità intellettuale di Curt (Richard Dreyfuss) e un po’ del perbenismo inquieto di Steve (Ron Howard). Una bella fetta dell’insicurezza del timido Terry (Charles Martin Smith), ma anche la discreta quota di faccia tosta del suo amico, il fusto sciupafemmine John (Paul Le Mat), nipotino di James Dean. Una notte brava californiana tra radio private e prove tecniche di libertà sessuale. E allora, sulla scia delle bravate per lo più innocenti dei protagonisti, tutti a briglia sciolta per le strade di Roma, spingendo al limite le utilitarie e lanciandosi le battute del film a finestrini abbassati, per far colpo sulla pupa eventualmente seduta al posto del passeggero ma sperando di farla franca con la polizia stradale. Sì, perché qui da noi puoi anche far finta che le multe siano “cacca di sbirro” e tenerle tutte nel cassettino della macchina, ma poi arrivano tutte, e tocca anche pagarle e zitti.
Ci è piaciuto così tanto, American Graffiti, che per tamponare la crisi d’astinenza hanno subito pensato, in America, di farci star buoni con una serie tv di cui ancora sentiamo la nostalgia: si chiamava Happy Days. Cominciata nel ’74, è andata avanti per dieci anni, praticamente fin quando Ron Howard ha cominciato a perdere i capelli ed è stato costretto a dire basta.
Da un cult all’altro, nell’anno di grazia Settantatré: i Pink Floyd fanno uscire il disco perfetto, il capolavoro dove ogni nota e ogni parola hanno un loro perché: Roger Waters lo chiama The Dark Side of the Moon, un modo per comunicare al mondo che i Pink Floyd sono stanchi di metafore e mezze verità. Si parla di denaro, di alienazione, del tempo che scorre inesorabile, dei conflitti che tutte queste cose insieme provocano nel sistema nervoso degli esseri umani, spingendoli alla follia, come la band londinese sa bene per aver vissuto sulla sua pelle la parabola tragica del vecchio leader Syd Barrett.
Musicalmente, il disco raggiunge un equilibrio miracoloso tra la psichedelia a volte eccessiva dei dischi precedenti e la consueta ricchezza creativa del quartetto, ed è praticamente ascoltabile un numero infinito di volte senza sfiorare la noia. Almeno per me, che mi entusiasmai già nel sentire un bootleg arrivato chissà come a casa di un amico: pessima incisione, arrangiamenti incompleti e imprecisi, d’accordo. Ma note folgoranti, indimenticabili dal primo ascolto. Le stimmate del capolavoro, insomma, destinato a rimanere in eterno nella memoria di noi, rockettari moribondi, ma decisi a vendere cara la pelle.