È inutile negarlo: andammo tutti a vedere Ultimo tango a Parigi, noi giovinetti, irresistibilmente attratti più che altro dal passaparola che favoleggiava di scene lubriche, oscenità mai viste prima. Ebbene, che ci crediate o no il vostro affezionatissimo (cit.) uscì emozionato e volando altissimo dal cinema, che era per la cronaca il glorioso “Arlecchino”, sito in via Flaminia e chiuso ormai da tempo immemorabile.

Non che nel film mancassero i turbamenti promessi, attenzione. Hai voglia se c’erano. Ma inseriti in una storia di tale fascino, pervasa da un sublime e perturbante senso di morte così intenso che perfino i mocciosi che eravamo ne furono storditi. La scelta degli attori fu vera folgorazione. L’eroe maturo e disperato, un Marlon Brando mai così sexy dai tempi della canotta di Un tram chiamato desiderio e l’esordiente Maria Schneider, tanto icona del suo tempo da restare prigioniera di un personaggio fin troppo memorabile. Così diversi e così conturbanti da risultare decisivi per il cocktail vincente, in saecula saeculorum.

Brando ci sogguarda ironico dal manifesto, sicuro di sé e quasi tronfio. Sembra ripensare alla bravata commessa sul set, dove Maria dichiarò molti anni dopo essersi svolta una vera violenza ai suoi danni. In secondo piano invece i due intrecciano le gambe, nudi e rilassati nel famoso appartamento di Passy.

Certo è che la potenza espressiva dell’opera di Bertolucci viaggerà ben oltre la pruderie del tempo, capace di provare ad archiviare una pellicola di così rara finezza con la deprimente sintesi di “film del burro”. Nonché di vellicare gli istinti del solito magistrato censore, sequestratore e solutore finale mediante rogo, tutto per la salvaguardia delle anime nostre sante e benedette.

E sul rogo metaforico rischiò di andare anche il più grande autore di canzoni italiano del dopoguerra, nome Lucio cognome Battisti, per le dicerie che lo volevano “fascista”. Non lo era. Come dichiarò di persona al mio direttore Renato Marengo, nell’unica intervista da lui mai rilasciata e rimasta storica. A Battisti interessava solo comporre ottima musica, suonarla e cantarla da par suo. A tal punto che in Inghilterra, dove nel settore non dormono certo da piedi, Lucio piaceva eccome. Sua Maestà Pete Townshend trovò “fantastica” una canzone di Battisti sentita per caso: era Emozioni. Poi non se ne fece niente: ancora troppo diverse e lontane Italia e Inghilterra, nel 1972, anno in cui esce Il mio canto libero. Un disco eccezionale, pieno di canzoni incredibili destinate a restare nella storia del pop italiano. La luce dell’Est, L’aquila, Io vorrei…non vorrei ma…se vuoi… e tutte ma proprio tutte le altre, inni giovanili cantati, gridati in gruppo, in macchina, in spiaggia, nelle feste del liceo, sui traghetti verso la Grecia, da soli o con la fidanzata/o, insomma dovunque e comunque.

La più bella, un autentico gioiello, resta per me Vento nel vento, sorprendente in ogni passaggio. Come accade solo in casi davvero eccezionali, alla musica italiana e non.