(di Claudia D’Agnone) “Quando si ha uno scopo, dice mia madre, basta proporsi di raggiungerlo. Non c’è niente che riesca a vincere la pigrizia come l’ambizione”. Questa è solo una delle frasi che Louisa May Alcott fa pronunciare a Jo March, suo alter ego nel romanzo che l’ha resa celebre, Piccole donne.

Sin da subito la Alcott ci presenta Jo March come una giovane donna fiera e combattiva, che si ribella a un mondo che ingabbia le donne nella dimensione domestica e sogna di vivere del proprio lavoro. Anche se l’ambientazione è a noi lontana (siamo nella seconda metà dell’Ottocento), il messaggio di Piccole donne è sempre tremendamente attuale, tanto da convincere la regista statunitense Greta Gerwig a farne un nuovo adattamento cinematografico.

Tre erano stati già i lungometraggi ispirati al libro di Louisa May Alcott: il primo, del 1933, vedeva una giovane Katharine Hepburn nel ruolo di Jo, in quello del 1949 Liz Taylor aveva il compito di dare il volto alla piccola e capricciosa Amy, mentre nella versione del 1994 a ricoprire i ruoli di Jo e Laurie (i personaggi più amati del romanzo) c’erano Winona Ryder e Christian Bale.

E se tutti ci stiamo ancora domandando quanto abbia sofferto Winona a dire di no, per copione, a quello che sarebbe diventato il fascinoso Batman nella fortunata trilogia di Chris Nolan, un’altra domanda -più seria- sorge spontanea sul film: era necessario riproporre Piccole donne, che ha già ottenuto un buon numero di trasposizioni cinematografiche e nel 2017 una serie tv firmata BBC?

La pellicola della Gerwig, nei cinema italiani dal 9 gennaio, ripropone pedissequamente la storia della Alcott, che, per quanto bella, è piuttosto semplice e da sempre è per questo catalogata come letteratura per l’infanzia.

Il romanzo -per i pochi che ne ignorino la trama- parla delle quattro sorelle March – Meg, Jo Beth e Amy – che vivono con la madre e una domestica. La storia si snoda durante la guerra di Secessione americana, cui il padre delle ragazze prende parte, e racconta la crescita di queste quattro giovani donne, che nonostante le ristrettezze vivono un’infanzia spensierata assieme al vicino Laurie, spensieratezza che sarà messa a dura prova da diverse vicende che le catapulteranno in un mondo adulto ben più duro di quanto avrebbero immaginato.

Ed è proprio questa distanza tra visione infantile ed età adulta che Greta Gerwig enfatizza nel suo lavoro, in primo luogo spezzando la linea cronologica del tempo e iniziando il film dalla fine: Jo è da un editore e cerca di farsi pubblicare un libro. Da questo momento in poi il presente e il ricordo edulcorato del passato (che scopriremo solo alla fine essere la storia del libro di Jo) si alterneranno continuamente sullo schermo in un contrasto di colori caldi, per l’infanzia, e freddi, per l’età adulta. Jo, da sempre la protagonista più amata, oltre ad avere caratteristiche della stessa Alcott, che la inventò, porta in sé anche un po’ della Gerwig e di tutte le donne moderne che lottano per ottenere gli stessi diritti salariali degli uomini.

Saoirse Ronan, la musa della Gerwig (che l’aveva già diretta in Lady Bird), interpreta una Jo March sognatrice e fiera: in una delle prime scene, infatti, la vediamo correre, spettinata e senza corsetto, in direzione contraria rispetto alla folla.

A differenza del romanzo, ma soprattutto delle altre trasposizioni in cui la figura di Jo tendeva solo a prevalere sulle sorelle, in questo lavoro la seconda delle sorelle March è assoluta protagonista.

Non spiccano, nella pellicola, le interpretazioni di Eliza Scanlen, che interpreta la dolce Beth, ed Emma Watson, che veste i panni della maggiore delle sorelle March, Meg.

Meglio caratterizzata e sicuramente meno capricciosa rispetto alle precedenti trasposizioni risulta Amy March (Florence Pugh).

Nonostante la focalizzazione sia sulla crescita e sulle battaglie femministe di Jo (come quella per mantenere i diritti della sua stessa opera), per rendere fede al senso di sorellanza che nel romanzo è vero tema portante, la Gerwig concede un paio di scene interessanti alle sorelle in cui vedremo Amy, la sorella nemesi di Jo e per questo meno amata dal pubblico, che, parlando con l’amico d’infanzia Laurie (Timothée Chalamet) del suo scarso talento che non le permetterà di diventare pittrice, sottolineerà le difficoltà di essere donna in un’epoca in cui tutto ciò che alle donne veniva concesso era il matrimonio.

Anche Meg, nel giorno delle sue nozze, porterà Jo a riflettere, rimproverandole di non comprendere le inclinazioni altrui: anche una minor ambizione merita di esistere ed essere rispettata e Meg sceglie con coscienza di sposare un uomo modesto per amore, inseguendo un sogno molto meno avventuroso e complesso di quello di Jo, ma più vicino alla sua indole.

La regista glissa velocemente sul finale romantico di Jo, sottolineando quanto sia frutto di un volere editoriale e non di una decisione convinta della Alcott. Lo stesso personaggio del professor Bhaer (Louis Garrel) non viene introdotto mai in un modo che possa farci empatizzare con lui. Quello su cui invece si sofferma è la nascita del libro, che Jo culla come una madre culla un bambino, a ricordare (o forse insegnare) a tutti che ogni donna ha il diritto di scegliere il proprio destino anche se non rispecchia le aspettative della società.

Oltre ai giovani e talentuosi interpreti principali, la regista si è potuta avvalere di un cast d’eccezione: Meryl Streep è Zia March, Laura Dern è Marmee March (la mamma delle sorelle), Bob Odenkirk è il Signor March, James Norton è John Brooke, Tracy Letts è Mr. Dashwood, Chris Cooper è il Signor Laurence.

La Gerwig ha messo su un piccolo gioiellino, un film delicato, ma allo stesso tempo forte, che racconta uno spaccato di vita femminile di ogni tempo. Piccole Donne è pronto a spiccare il volo non solo a livello di riconoscimenti (è candidato a ben 6 premi Oscar e noi auguriamo di portarne a casa il maggior numero possibile), ma in quanto a maturità: se prima il romanzo era definito letteratura femminile, questo film è decisamente adatto a tutti, donne, ma soprattutto uomini, perché abbiamo sempre qualcosa da imparare gli uni dagli altri, perché il rispetto reciproco ci porterà a collaborare meglio e combattere per questo mondo che condividiamo e… perché le opere di valore non sono rivolte a un solo genere e non passano mai di moda.