(di Alfonso Romeo) Pillole per dimagrire, dormire, svegliarsi e stare tranquilla, mandate giù a sorsi di vodka. Le pillole, al posto delle lancette di un orologio, hanno scandito l’intera esistenza di Judy Garland, icona di una Hollywood indimenticata e indimenticabile che rivive nel biopic Judy, seconda opera da regista per Rupert Goold, in uscita nelle sale italiane dal 30 gennaio.

La protagonista è una titanica Renée Zellweger, unico soldato su cui punta l’intera sfida che riveste un’operazione del genere, coraggiosa ma vulnerabile. Certo, il materiale per la sceneggiatura non è mancato: Judy Garland, nata professionalmente tramite un vero e proprio processo di fabbrica messo in moto dagli studios californiani, incarna durante gli anni della Old Hollywood il personaggio della bambina-prodigio gioia dei genitori e idolo delle ragazzine, al pari della biondissima Shirley Temple di cui però rappresenta l’esatta antitesi esistenziale: Ethel Gumm, questo il suo vero nome, è solamente una bambina cui piace mangiare cioccolata o passare il pomeriggio a giocare all’aperto. Venduta letteralmente dalla famiglia di aspiranti attori alla MGM, però, Ethel deve diventare frettolosamente Judy Garland: ai pianti per essersi fatta male cadendo al parco si sostituiscono quelli per il naso dolorante dalla rinoplastica imposta dai produttori, ai giocattoli le pillole dimagranti (solo di tanto in tanto, quando riesce a non farsi vedere, ruba un bicchiere di latte sul set). Il Mago di Oz (1939) segna definitivamente l’addio alla spensieratezza di Judy, che appare tanto sognante e solare sullo schermo quanto devastata nella realtà, segregata in una caverna fatta di complessi d’inferiorità, pillole, una manciata di matrimoni e una manciata di altre pillole, con esibizioni canore in uno stato tale da trattenere il pubblico in un brivido di preoccupazione: queste le fermate del suo triste viaggio verso la fine, a soli 47 anni, per un’eccessiva dose di barbiturici.

Con una verità dalle tinte così drammatiche, forte deve essere stata la tentazione (e il pericolo) di scivolare verso un film con le fattezze di un noioso santino da martire. Fortunatamente l’interpretazione di Renée Zellweger – consacrata dalla nomination all’Oscar e già premiata con il Golden Globe – scongiura questo rischio, plasmando una maschera tragica e divertente, con tratti di naïveté che imbiancano il dolore sullo sfondo di un’irresistibile leggerezza e una disperata voglia di vivere. La Judy della Zellweger non urla il suo dispiacere, ma ci parla di resilienza. Nonostante i dettami di uno stile narrativo, quello del biopic, con cui ormai sembra che la critica debba far pace (abbondanti flashback, scene in slow-motion e momenti che i più disincantati definirebbero retorici), Judy è un film pensato, girato e interpretato con amore. E, visto il bisogno che sembrava averne la vera Garland, questa è la qualità più importante.