(di Alfonso Romeo) La filmografia di Matteo Garrone sembra viaggiare schizofrenicamente verso due mete diverse, spostandosi con una certa frequenza da un leitmotiv all’altro: l’approfondimento emozionale di fatti di cronaca e la grande fiaba. In opere come L’imbalsamatore (2002), Primo Amore (2004) o Dogman (2018) il filo conduttore è incarnato da un viaggio claustrofobico nella mente umana, in tutti i suoi cunicoli più oscuri e criminali: sono quelli del nano di Termini, del “cacciatore di anoressiche”, del delitto del Canaro. Ma ecco che all’improvviso è lo stesso Garrone a voler lasciare tutta questa raccapricciante realtà alle spalle, fuggendo verso una dimensione dove il chimerico avvolge ciò che lo circonda, condannando il male, quasi sempre, alla sconfitta: la favola.
Il regale e visionario Racconto dei Racconti (2015) ha rappresentato una pagina importantissima del cinema italiano contemporaneo, pagina che ora si pone in dialogo diretto con Pinocchio, progetto da sempre palpitante nella fantasia del regista: «Ho iniziato a disegnare la storia di Pinocchio quando avevo sei anni, è un racconto che mi accompagna da allora. Come regista, era difficile resistere alla tentazione di farci un film», spiega Garrone in conferenza stampa.
La realizzazione ha poi necessitato di un lavoro monumentale, partendo dalla ricerca dei volti più adatti e dei luoghi maggiormente in linea con l’estetica della storia. Se Il Racconto dei Racconti sembra costruirsi attorno al romanticismo decadente e surreale della fotografia di Tim Walker, Pinocchio assume le sembianze di un quadro dei Macchiaioli, artisti toscani attivi nella seconda metà dell’Ottocento, famosi per prediligere il verismo della vita quotidiana fra casolari in rovina e campi di grano, che per il film rivivono in luoghi rigorosamente italiani, sparsi tra Lazio, Puglia e Toscana.
La storia del burattino dal cuore d’oro ma dalla testa di legno può essere letta attraverso mille chiavi diverse, ma Garrone ha voluto portare in scena il racconto nella più elegante e classica delle sue forme, prendendo ispirazione dalle illustrazioni di Enrico Mazzanti e dall’indimenticato sceneggiato di Luigi Comencini del 1972. Roberto Benigni, già Pinocchio nel suo film del 2002, nei panni di Geppetto riserva dei momenti dall’immediata empatia, con un ruolo-metafora sull’amore paterno, affiancato da attori come Gigi Proietti, Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo.
Pinocchio può e deve definirsi un film corale in cui il cast artistico, trasformato dall’impressionante trucco prostatico di Mark Coulier, immerso nella fotografia di Nicolaj Bruel e nelle inconfondibili e sognanti melodie di Dario Marianelli, viene mosso dai fili (è proprio il caso di dirlo) di eccellenti maestranze tecniche. Un perfetto blockbuster italiano per questo Natale.