Ora vi chiedo un piccolo sforzo, perché la capriola temporale all’indietro che vi chiedo è davvero notevole. Ben 62 anni fa Sidney Lumet, regista eccezionale, esordiva nel cinema col capolavoro di cui disquisiamo oggi: La parola ai giurati, in italiano, Twelve Angry Men, in originale. Dodici uomini, per l’appunto, chiusi in una camera di consiglio per decidere la sorte di un ragazzo accusato di omicidio. Un campionario indimenticabile di brave persone, chi più chi meno, pronte a condannare un disgraziato alla pena capitale pur di tornarsene a casa in tempo per la partita in tv. Ma c’è Henry Fonda, tra loro. Non un eroe e nemmeno un santo. Solo un americano onesto, che non sopporta di avere sulla coscienza il peso di un ragionevole dubbio non risolto. Li convincerà tutti, uno a uno, e noi siamo lì accanto a lui, tifando per lui fino all’ultimo. Magari persuasi che nella vita reale saremmo al suo posto, come lui indomiti combattenti, non certo nelle file della marmaglia benpensante e ipocrita. Ma ne siamo sicuri?
La galleria dei colpevolisti è una passerella di eccezionali caratteristi americani, alcuni divenuti anche protagonisti di primo piano, come Martin Balsam e l’irriducibile Lee J. Cobb. Facce indimenticabili, per un film che ho visto la prima volta in tv all’età di sette o otto anni, ma che di certo mi ha insegnato qualcosa. Fatelo vedere ai vostri figli, anzi, rivediamolo tutti insieme, questo capolavoro.
Oggi sono tempi duri per i garantisti, Henry Fonda è morto da tempo immemorabile e le condanne mediatiche fioccano che è un piacere. A portare alta la bandiera di papà Henry nell’America trumpiana resta solo Jane, sua figlia ottantenne ma ancora in prima linea contro il sopruso. Buon sangue non mente.
Sempre in America, nel 1957, usciva un disco memorabile. Jerry Lee Lewis, pianista e protorocker infernale infiammava il pubblico (è proprio il caso di dirlo) lanciando a piene mani Great Balls of Fire, saltando come un indemoniato sul povero strumento, dal quale tirava fuori note martellanti e cariche di energia pura. “The Killer”, lo chiamavano, e basta guardare le sue performance per capire il perché.
Lo rovinò uno scellerato matrimonio, il terzo dei sette totali, con la tredicenne (avete letto bene) cugina Myra Brown. Jerry era il rivale di Elvis Presley, ma lo scandalo lo travolse irrimediabilmente. Qui non c’è spazio, per raccontare una vita al limite dell’assurdo, tra droga, alcool, pistole facili, sciagure familiari che basterebbero a riempire l’esistenza di una trentina di persone. Ma lui era “The Killer”.