(di Alfonso Romeo) A nove anni dall’esordio al cinema dell’ormai iconico Cetto La Qualunque in Qualunquemente (2010) e a sette dalla seconda apparizione in Tutto tutto, niente niente (2012), gli avverbi improbabili, gli scenari esasperati e la realtà italiana manipolata a fini comici (ma non solo) di Antonio Albanese fanno il loro grande ritorno sulle scene con Cetto c’è, senzadubbiamente, diretto anche in quest’occasione da Giulio Manfredonia, e nato dalla penna dello stesso Albanese insieme con Piero Guerrera.

Questa volta, Cetto è sostanzialmente fuggito in Germania, dove si è reinventato nelle vesti di imprenditore di successo, dall’ottimo rapporto con i soldi e dalla scarsissima attitudine alla legalità; anzi, in Germania, afferma grottescamente, la mafia è un marchio di qualità, da rispettare e perpetuare. Tutto sembra andare per il meglio fin quando una vecchia zia, in apparente punto di morte, lo vuole al suo capezzale. Cetto dovrà far ritorno in Calabria rinunciando così al suo nuovo look teutonico, con tanto di ciuffo platino. A questo punto scoprirà qualcosa di scioccante sulle sue vere origini: senza anticipare troppo, basterà solo segnalare la sua volontà a tornare nella terra natìa a occuparsi di politica, restaurando la monarchia.

Spiega il regista, Giulio Manfredonia: «Gli spunti su cui lavorare erano davvero tanti, e come al solito la fotografia era limpida, le sorprese infinite, lo stile sempre preciso, il divertimento assicurato. Bisognava solo girare il film. Ed è stato davvero un piacere». Secondo Manfredonia, realizzare i film di Antonio Albanese è un po’ come una vacanza, un’evasione dalle regole di forma, nonché una fotografia, sempre in evoluzione, del nostro Paese.

Albanese d’altronde si sa, è l’esponente italiano più conosciuto di un tipo di commedia che prende in prestito le caratteristiche fondamentali del teatro dell’assurdo: il rifiuto della drammaturgia di tipo tradizionale, di un qualsiasi linguaggio logico-sequenziale, la presenza di elementi così grotteschi da risultare simultaneamente divertenti. Il divertimento però assume toni riflessivi, non è mai fine a se stesso, celando una denuncia, o quantomeno un ritratto caricaturale di una qualsiasi situazione che diventa la vera protagonista della messa in scena. Nello specifico, a essere messo alla berlina è il semplicistico motto che tutti noi (Albanese in primis) avremo sentito ameno una volta in un qualsiasi bar: “Si stava meglio con la monarchia”. L’aspirazione anacronistica, data dalla sfiducia nella politica attuale, di far ritorno a un accentramento del potere, a un “capopopolo”, a una qualche figura carismatica che si faccia carico delle illusioni e del senso di smarrimento degli italiani. Caratteristica che, scettri e corone a parte, non è purtroppo distante dalla realtà di un certo tipo di elettorato odierno.