Il 1965 inglese non è stato come il nostro. Mentre Londra passava improvvisamente dalla condizione di città dello smog a quella di luogo più colorato del mondo, l’Italia dormicchiava ancora e il concerto dei Beatles a Roma non si tenne, quell’anno, in uno stadio con decine di migliaia di persone, ma in un cinema-teatro, l’Adriano. Due spettacoli, uno il pomeriggio e uno la sera e il locale non era nemmeno strapieno.

I Rolling Stones, intanto, avevano tirato fuori dalle loro chitarre un inno generazionale: Satisfaction. Alla mia età, nel ’65, non si andava in giro per locali, e così accadde che sentii per la prima volta questa canzone in una festa tra compagni di scuola delle medie. Una festa molto simile a quella descritta tanti anni dopo da Elio e le Storie Tese in un loro capolavoro. Sì, proprio con Fanta, patatine e gioco della bottiglia, mentre sullo sfondo andava il diabolico riff distorto di Brian Jones. Impossibile non ballare, sentendolo. Lo stacco di batteria e tamburello che introduceva periodicamente il riff, ossessivo come un martello, era un invito a nozze, e i dodicenni in cravatta che avevano appena imparato i twist di Peppino di Capri ed Edoardo Vianello erano fatalmente risucchiati in un vortice spontaneo. Dopo pochi secondi a nessuno importava di sembrare un orso, un cavallo o un babbuino ubriaco: erano prove tecniche di una libertà che arrivava dal Regno Unito, insieme alle camicie a fiori e ai jeans ricamati che negli anni successivi avrebbero conquistato la penisola.

Il testo di Satisfaction, scandito con rabbia da Mick Jagger, parlava proprio del suo contrario: l’insoddisfazione dei teenager per l’esito ancora incerto di una battaglia appena cominciata, quella contro la società degli obblighi e delle imposizioni. Ma allora nessuno, da noi, lo sapeva.

Al cinema, Antonio Pietrangeli propose un film bellissimo e struggente. Si chiamava Io la conoscevo bene e, in un certo senso, rispecchiava l’altra faccia della medaglia della rivoluzione giovanile. All’esordiente Stefania Sandrelli il regista affidò la parte di una giovanissima provinciale, Adriana, arrivata a Roma in cerca del successo proprio nel cinema. E che finisce per passare tra le mani distratte e ciniche di una serie di personaggi che rivelano puntualmente il loro squallore al momento di dare non solo un’opportunità professionale ad Adriana, ma anche un briciolo di autentico affetto.

Tre mostri della commedia all’italiana, Enrico Maria Salerno, Nino Manfredi e Ugo Tognazzi si accontentano di lasciare il segno in parti minori, in particolare l’attore fallito Tognazzi nella scena, memorabile e toccante, in cui cerca di strappare un ingaggio con una performance da avanspettacolo sfiancante e patetica.

Ma è la sequenza finale del film quella destinata a rimanere nella storia del cinema italiano: Adriana, rientrata al mattino dall’ennesima notte di delusioni, cammina lentamente nel suo monolocale, come ipnotizzata. Accende con un calcio il giradischi, si toglie le scarpe col tacco e la parrucca, esce sul terrazzino che guarda il Tevere vicino al gazometro e ci lascia, attoniti, a guardare la tenda bianca che sventola nella brezza mattutina. Ancora oggi non riesco a rivederla senza provare una stretta al cuore.