Lo so, lo so che il 1980 è stato un anno di cinema travolgente. Che è l’anno di Shining e dei Blues Brothers, della Terrazza e di American Gigolò. Ma questa è una rubrica di cuore, lo avete ormai capito. E il film che all’epoca mi perforò l’anima fu una pellicola in bianco e nero, girata da un trentaquattrenne  che oh, se ci sapeva fare. David Lynch, di lui parlo, aveva già esordito con l’inquietantissimo Eraserhead. E decise di puntare sulla storia straordinaria dello sventurato inglese Joseph “John” Merrick, animo sensibile e corpo orrendamente deforme, per tutti The Elephant Man, utilizzando un cast di tutto rispetto. Anthony Hopkins, John Hurt, Anne Bancroft, Sir John Gielgud restituiscono in modo impressionante l’atmosfera tetra e angosciante che l’Inghilterra vittoriana sapeva riservare alle anime infelici.

Credo che mai dimenticherò il grido di dolore di Merrick, inseguito e braccato ingiustamente per le sordide strade di Londra.

“Io non sono un animale…! Sono un uomo!”

Forse riascoltare quel grido lancinante sarebbe utile oggi, nel momento in cui la pietà umana sembra nuovamente perduta, dispersa in milioni di frasi grondanti cinismo, paura e odio per il diverso.

Difficile trattenere le lacrime quando l’Uomo Elefante, salvato dal dott. Treves (Hopkins) e invitato a teatro dalla compassionevole signora Kendall (Bancroft) si presenta in abito da sera e viene salutato da un applauso scrosciante dal pubblico. Sarà l’anticamera di una fine serena e dignitosa, come quella cui tutti avrebbero diritto.

Nel frattempo, nell’aria spensierata della grande stagione segnata dalla discomusic, si sentivano anche molte note nuove, di gran classe. Gruppi che avevano capito che il rock vecchia maniera aveva bisogno di una bella riverniciata.

Tra questi, la band trainata da un genio: David Byrne. Byrne aveva fondato anni prima i Talking Heads insieme al batterista Chris Frantz e all’affascinante bassista Tina Weymouth, che rivendicava la sua femminilità andando in palcoscenico senza rinunciare alle gonne, con un effetto visivo piuttosto originale.

Quando esce l’album Remain in Light è il trionfo. Video e parole di Once in a Lifetime, canzone storica, sono difficili da dimenticare. Una sottile inquietudine, sottolineata nel video dai movimenti meccanici, estenuati ed estenuanti, di Byrne e da frasi che sembrano anticipare di molti anni l’invettiva disperata dei ragazzi di Trainspotting.

You may find yourself in a beautiful house, with a beautiful wife
You may ask yourself, “Well, how did I get here?”

Quale futuro si preparava per la generazione del riflusso? I Talking Heads cercavano di avvertirci, noi non li abbiamo presi sul serio.