Facile ricordarsi di Audrey Hepburn nei leggiadri panni di Holly Golightly o di Sabrina. O sognarne gli occhioni ansiosi di libertà nelle sue vacanze romane col superfico Gregory Peck, che quasi ci rimette una mano nella Bocca della verità. Più intrigante spulciare nell’archivio della memoria e trovare Gli occhi della notte, thriller memorabile dove la nostra prediletta, per giunta cieca, conduce una battaglia senza quartiere per la sopravvivenza col cattivone di turno, che qui è il formidabile Alan Arkin.
Non sto a raccontarvi la trama, perché il film merita di essere visto ancor oggi e vi romperei le uova nel paniere, rovinando un’eventuale serata tv possibilmente piovosa e solitaria. Dico solo che, se non ricordo male, vidi il film che ero in vacanza in montagna, d’estate. Tempi allegri, si andava al cinema in comitiva, spesso e volentieri ben disposti a scassare i cabasisi al disciplinato pubblico pagante con lazzi molesti e idioti.
Beh, quella volta no.
Nel secondo tempo del film non volava una mosca, in un crescendo di angoscia per la sorte della ciechetta Audrey, nostra sorella e mogliettina indifesa. Si contano sulle dita di una mano i film dove, personalmente, ho avuto il classico tuffo al cuore, la scena che speriamo tutti di trovare investendo la pur modica somma del biglietto in un giallo confezionato a regola d’arte. Bene, il tuffo ci fu, carpiato, con avvitamento della valvola mitralica. Provare per credere.
Intanto, nel mirabolante Rinascimento musicale di quegli anni irripetibili, si faceva strada un ragazzone afroamericano coi capelli a cespuglio, all’epoca d’ordinanza. E milioni di ragazzetti nel mondo provavano a cimentarsi, su chitarre a dir poco discutibili, in un assolo che lui, il mitico Jimi Hendrix, aveva fermato nel tempo per sempre, scolpito su vinile. Parlo naturalmente di Hey Joe, replicata fino alla noia nelle cantine o nelle notti d’estate all’aperto di Roma, Parigi, Berlino, Londra, San Francisco e via discorrendo. Solo che, almeno a Roma, mai si seppe che il testo parlava di un uomo in fuga, un assassino braccato per la vile uccisione della sua compagna. Troppo trascinante il riff e troppo strascicato lo slang di Jimi per comprenderne anche vagamente il senso, col risultato che si finiva per evocare, tutti in coro e a nostra insaputa, un brutale femminicidio.
Pierluigi Ferrari, allora diciottenne e in seguito attore, amico fraterno e collaboratore di Carlo Verdone, sapeva fare quell’assolo e me lo insegnò. Pigi, detto Jimi, se n’è andato qualche anno fa. Lo ringrazio ora che ne ho l’occasione, con tristezza.