E oggi saltiamo a piè pari nei vituperati ma rimpianti anni Ottanta. Certo, dopo i due decenni precedenti era facile essere delusi dal nuovo, che avanzava sotto forma di musica elettronica, di palle stroboscopiche da discoteca e di edonismo reaganiano. Ci si renderà conto poi che, almeno sotto l’aspetto musicale c’era del buono anche lì.
Nel luglio del 1983 mi sposo la prima volta. Lo dico perché la colonna sonora del viaggio (di nozze) in Usa fu indimenticabile come l’impatto con New York e la California. Due soprattutto i pezzi che passavano nei taxi e nella radio della macchina a nolo: “Flashdance…what a feeling” ma soprattutto Sweet dreams, composta da Dave Stewart, taciturna parte maschile di un duo strepitoso chiamato The Eurythmics. La parte femminile, una fuoriclasse assoluta, aveva la voce e la presenza abbagliante di Annie Lennox, dea androgina di Aberdeen, Scozia. Era l’alba del “Synth Pop”, qui coniugato con accenti New Wave, novità provenienti dall’inesauribile fucina anglosassone. Il terrazzo della Torre Nord svettante nel cielo di NY, le magliette piene di colori che portavo sui saliscendi di Frisco, tra le barche di Sausalito e al Chinese Theater di Los Angeles, chissà che voleva dire Sophia Loren tracciando la scritta “Solo per sempre” nel cemento fresco, vicino all’impronta delle sue mani. Tutto era puntualmente accompagnato dalla voce inquietante di Annie dai capelli arancioni e dai cupi bassi sintetizzati di Dave, catapulte inarrestabili verso il nuovo decennio, ci piacesse o no.
A Roma invece era in grande spolvero Carlo Verdone, in particolare con uno dei suoi film più aggraziati, dal titolo Acqua e sapone. Ho scelto lui perché un’associazione c’è: Verdone, grande rockettaro, girerà qualche anno dopo una pellicola con Claudia Gerini in cui l’identificazione dei due con Dave & Annie è palese. Film e titolo girano intorno alla bellezza acerba dell’incantevole donna bambina Natasha Hovey, italiana di Beirut con padre americano e madre olandese. Il resto del cast è piuttosto fantasioso, con la solita Lella Fabrizi, il coatto romanesco Fabrizio Bracconeri, anche lui al debutto, affiancati a Florinda Bolkan e Jimmy il Fenomeno. Follie del cinema.
Il film, sicuramente godibile, non destò clamore particolare. Una commediola sentimentale con Verdone versione bidello innamorato e imbranato più che mai in abito simulato da prete, che finisce per strappare non poche meritate risate. Ma la scena finale, quella col deluso Verdone che costringe gli amici a stendersi quotidianamente nei campi vicino Fiumicino a veder partire gli aerei ed esorcizzare il dolore per la perduta americanina è di quelle che restano. Mentre l’autoradio accesa trasmette il formidabile pezzo degli Stadio, “Donna bambina”, i tre amici accennano un tentativo di balletto che è lo specchio perfetto dell’epoca. In quei passi goffi c’è per intero lo spirito, al contempo timido e guascone, di una generazione di periferia che ha assorbito con abnegazione ed entusiasmo la lezione della “Febbre del sabato sera”. I tre risalgono nella lancia “Fulvia” beige e si allontanano nel polverone di una strada sterrata, sognando probabilmente Travolta e il ponte da Verrazzano. Accompagnati dallo sguardo di noi spettatori, giovani uomini dell’epoca, complici e ingenui sognatori.