Che anno è? – Rubrica a cura di Giorgio Cavagnaro.
Alzi la mano chi, tra i sessuagenari del mio stampo, non era un po’ innamorato di un’inglesina che cantava molto bene in italiano, suggerendo all’ascoltatore distratto addirittura di non essere straniera. Certo, il nome Petula Clark, sbirciato dai più attenti sull’etichetta del disco che si consumava nel juke-box in migliaia di repliche, non lasciava dubbi.
Inglese di Epson, ha venduto 70 milioni di dischi ed è ancora in attività, a ottantatrè anni. Chi lo avrebbe mai detto, a Roseto degli Abruzzi, a Ostia, a Pieve di Cadore, nelle piste da ballo all’aperto dove risuonava quell’allegro saluto rivolto alla comitiva estiva, preludio di amori dal destino segnato e puntualmente sottolineato dalla canzone nel più classico dei mesti finali ? Con tanto di treno che si allontana sbuffando e un disperato agitar di fazzoletti e mani, mentre gli occhi sono ormai offuscati dalle lacrime più sincere che la vita possa esprimere.
L’inglesina Petula è diventata coi decenni una lady incontrastata della canzone internazionale, con centinaia di club a suo nome e milioni di fan in tutto il mondo, ancor oggi.
Ciao ciao”, brillante traduzione di Downtown, giganteggiò sulle spiagge italiane in quelle estati sospese tra gazzosa e Coca Cola, prima del definitivo trionfo della seconda. La adoravo, e come ho detto mi stregava la biondina Petula, non sexy ma rassicurante quanto basta, per un preadolescente ancora un po’ imbambolato.
In Italia, siamo intorno al ’63, i soliti ben informati cominciavano a orecchiare musica nuova, sulla quale nessuno ovviamente avrebbe scommesso un centesimo. Però, e ve lo dico in confidenza, sapete chi suonava la chitarra nell’incisione originale inglese della dolce canzone di Petula?
Pausa.
L’anticristo in persona, nei panni di un diciottenne sbarbato e timido, ma molto promettente con le sei corde. Il nome?
Jimmy Page.
Per darvi un’idea più completa dell’epoca, risplendeva nelle sale cinematografiche traboccanti di pubblico e di fumo azzurro una gemma, un diamante purissimo destinato a durare per sempre: Colazione da Tiffany. E io, scortato da madre e sorella, varcai per la prima volta la soglia del tempio col cuore in subbuglio, per rimanere a bocca aperta davanti alla grazia in persona, Audrey Hepburn, che canta “Moon River” con un filo di voce facendo innamorare perdutamente il finto cinico George Peppard. Non ero assolutamente consapevole, all’uscita, di aver assistito al top della commedia sofisticata di tutti i tempi: un romanzo di Truman Capote diventato film sotto la direzione di Blake Edwards, con la musica di Henry Mancini e giocato, scusate il termine preso in prestito da inglesi e francesi, dall’attrice più adorabile mai vista. Per me fu solo la sera che il cinema mi entrò in circolazione, per non uscirne più.
Quando, molti anni dopo, sono sbarcato per la prima volta a New York, passai una notte molto movimentata e divertente. Al tassista indiano che mi riportava a casa, erano le cinque del mattino, chiesi di percorrere la Fifth Avenue, deserta. Ve lo giuro, Audrey era lì, incantata alla vetrina di Tiffany’s nel suo tubino nero, coi guanti lunghi, gli occhialoni scuri e quella collana incredibile, mangiucchiando estatica i biscotti che prelevava, delicatamente, da una bustina bianca.
La salutai appena con un cenno, per non interrompere un sogno.
Ciao ciao
Ritorno al mar dove ho sognato con te
e sembra dirmi ciao. Ciao, ciao!
Rivedo ancor i vecchi amici che ho
e mi salutano. Ciao, ciao!
E sulla spiaggia limpida non è cambiato niente.
Sotto il sole caldo io ti cerco tra la gente,
so che ci sei.
Ecco mi hai vista, e tu
mi vieni incontro correndo,
e stai sorridendomi.
Ciao, ciao! Grido chiamandoti.
Ciao, ciao! Amore abbracciami.
Ciao, ciao! Sono tornata da te.
Ciao, ciao!