(di Francesco Ferri) Vincitore agli Oscar per la miglior regia e la miglior fotografia, ai David come Miglior film straniero, Roma è un gioiello dipinto in bianco e nero che racconta, attraverso la vicenda di un nucleo umano e familiare, il dramma di una società intera. Roma è il quartiere di Città del Messico in cui si sviluppa la vicenda: specchio della realtà di una delle capitali più affollate e diseguali del mondo nei primi anni ‘70.

Con un bianco e nero folgorante e una scrittura totalmente senza colonna sonora originale, fatti salvi i suoni e le musiche provenienti dall’ambiente narrato, Alfonso Cuarón (nella foto, sul set con la protagonista femminile del film Yalitza Aparicio) racconta una storia di donne, solo apparentemente indebolite e umiliate dalla vita, che trovano nel supporto reciproco forza di volontà, coraggio e desiderio di rivincita.

Protagonista, infatti, è una famiglia borghese come tante, con il personale di servizio indigeno di rito. E i piccoli grandi razzismi dell’epoca. La scena si apre con una bellissima immagine del patio di casa, lo stesso che chiuderà il film. L’ingresso al patio è invaso dagli escrementi di Borras, il cane di casa. I ragazzini schiamazzano tra le sale della loro immensa dimora. A tenere pulito e a calmare i marmocchi ci pensa Cleo, la domestica, che con la sua introversione segue le indicazioni di Sofía e di suo marito Antonio. La coppia guida una famiglia di classe medio alta della capitale. Il matrimonio tra i due non è roseo e i misteriosi e continui viaggi di lavoro del capofamiglia non danno una mano.

Cleo è una ragazza di origine mixteca che serve in casa: pulisce, sveglia i bambini, prepara da mangiare. Praticamente non mette naso fuori, e quel lavoro sembra essere la prima e unica esperienza di vita che potrà avere.

La famiglia vuole bene alla timida indigena, ma spesso le riserva duri trattamenti che vogliono rimarcare le differenze sociali.

In queste dinamiche c’è poi la prima esperienza sessuale di Cleo, con le sue paure, la drammatica gravidanza e la fuga del padre del bimbo, il contesto generale del Paese, la povertà, le proteste violente, il terremoto.

La scelta del bianco e nero per le immagini è ovviamente cruciale nella narrazione del film prodotto da Netflix e regala alla pellicola una forte emotività. La musica diegetica copre efficacemente quegli spazi sonori in cui la narrazione deve essere accompagnata da qualcos’altro oltre alle immagini.

Interessantissimo lo studio totale fatto sui brani popolari dell’epoca in Messico che ha centrato l’obiettivo di contestualizzare con una forte malinconia la quotidianità della protagonista. Musiche eccellenti non solo per la scelta ma perché inserite in maniera perfetta all’interno delle scene, raccontando spesso più delle immagini i sentimenti dei protagonisti.

Dalla selezione della music supervisor Lynn Fainchtein, tra i brani extradiegetici che fanno da contorno alle scene, spicca il pezzo deciso per il trailer “The Great Gig in the Sky” dei Pink Floyd che sembra inneggiare alla libertà.