La proiezione de La paranza dei bambini ha acceso la 69. edizione del Festival di Berlino, finora, a detta degli inviati, piuttosto soporifera. Il film di Claudio Giovannesi, tratto dal libro di Roberto Saviano, è l’unica produzione italiana in concorso alla Berlinale, dove ha fatto irruzione con il suo tragico affresco umano e sociale. Il racconto di un’epoca nella quale l’aspettativa di vita è tornata ai livelli del Medioevo, come ha sottolineato lo stesso Saviano, vede protagonisti dei quindicenni, poco più che bambini, che hanno bruciato le tappe della carriera criminale mettendo in conto una morte precoce, a vent’anni di età o poco più, in una discesa agli inferi costellata di cocaina, alcol e armi.
Siamo nella Napoli dei nostri giorni. Sei ragazzi – Nicola, Tyson, Biscottino, Lollipop, O’Russ, Briatò – hanno quindici anni e vogliono conquistare il mondo. Affamati di soldi e assetati di potere, perseguono l’unica scorciatoia possibile per avere tutto e subito, il crimine. Quando i boss del loro quartiere, il caratteristico Rione Sanità di eduardiana memoria, finiscono dietro alle sbarre, la paranza di ragazzini decide di colmare quel vuoto criminale. Dopo aver contattato Don Vittorio, l’anziano capo della zona agli arresti domiciliari, ottengono da questo le armi e l’autorizzazione a esercitare il controllo delle piazze dello spaccio e del giro di estorsioni. Il Rione Sanità finisce così in mano a una gang di ragazzini, duri, spietati e incoscienti, come solo gli adolescenti possono essere. I soldi cominciano a piovere sulla paranza, che spende tutto in vestiti firmati, scooter, discoteche, champagne, mobili nuovi per la mamma e per una casa da usare come base logistica nonché luogo di incontro e festini a base di droghe, alcol, prostitute e travestiti. Nicola e i suoi fratelli di sangue non temono il carcere né la morte, né tantomeno le bande rivali dei Quartieri spagnoli, di Ponticelli, di Scampia. La guerra quotidiana e la vita criminale conducono a una scelta irreversibile, il sacrificio di tutto, della famiglia, dell’amicizia e dell’amore. E perfino della vita.
Recitato in napoletano stretto e sottotitolato, il film vede la partecipazione straordinaria di Renato Carpentieri, nel ruolo di Don Vittorio, e di Aniello Arena, l’ex detenuto protagonista di Reality di Matteo Garrone, nei panni del boss Lino Sarnataro.
Claudio Giovannesi, dopo Alì ha gli occhi azzurri e Fiore, torna così a occuparsi di adolescenza marginale e lo fa con grande asciuttezza e discrezione, non indugiando mai in sociologismi. La macchina da presa si muove all’interno della paranza, catturandone le emozioni e l’innocenza, che seppure dissipata prematuramente, rimane in superficie negli sguardi e nelle sensibilità dei ragazzi, un drappello di giovanissimi attori alla prima esperienza davanti alla macchina da presa. Prima di arrivare al nucleo di protagonisti Giovannesi ha rivelato di aver fatto i provini a ben quattromila ragazzi. E il risultato finale è eccellente.