(di Claudia D’Agnone) La mattina di martedì 11 settembre 2001 gli Stati Uniti d’America furono sconvolti da un attentato terroristico che avrebbe avuto un effetto immediato e travolgente sulla storia mondiale. Chiunque ne ha sentito parlare, ha vissuto il momento, ha visto i reportage al telegiornale, ma fino a poco tempo fa nessuno era a conoscenza degli eventi straordinari che si erano svolti poco dopo. All’indomani degli attentati, infatti, l’unità speciale Alpha 595 guidata dal capitano Mitch Nelson (Chris Hemsworth) – dodici valorosi membri conosciuti come Berretti Verdi – decise di partire volontariamente per l’Afghanistan con l’obiettivo di annientare cinquantamila talebani. In evidente inferiorità numerica, costretti a muoversi con i cavalli contro i carri armati talebani, i dodici soldati porteranno a casa la prima missione americana in Medio Oriente.

Questa è la storia di 12 Soldiers, che vedremo, grazie a 01 Distribution, nelle sale italiane dall’11 luglio: un autentico “war movie” che punta sull’azione e su Chris Hemsworth, che smessi i panni di Thor, il Dio del Tuono, vesti quelli di capitano, per attirare il pubblico in quella che non risulta essere la stagione d’elezione per le uscite cinematografiche.

Al netto di una certa componente autocelebrativa tutta hollywoodiana, 12 Soldiers non mira a legittimare l’intervento americano in Afghanistan, quanto a raccontare la voglia di riscatto, ma anche il confronto con la diversità. I Berretti Verdi, oltre che in evidente svantaggio numerico, non parlavano la lingua né avevano una conoscenza più che vaga del posto, l’unica possibilità di tornare a casa vivi dalle loro famiglie era convincere il Generale Abdul Rashid Dostum a unire le forze per combattere contro i loro comuni nemici, i talebani, alleati di Al Qaeda. Allo stesso tempo, Nelson e i suoi dovevano fidarsi di Dostum, vincere le divergenze culturali e adattarsi a tattiche belliche meno avanzate di quelle cui erano abituati.

Il regista danese Nicolai Fuglsig è al suo primo lungometraggio, ma ha già all’attivo numerosi cortometraggi e una carriera da reporter, esperienze evidenti nell’utilizzo dei morbidi movimenti di macchina, nelle panoramiche dall’alto e nella maestria degli stacchi che favoriscono un montaggio frenetico particolarmente adatto alle scene di guerra più cruente. Nelle parti più meramente descrittive, di un luogo o di uno stato d’animo, si serve di piani d’insieme o primi piani, accompagnando magistralmente una sceneggiatura buona, ma non ottima.

Il sentimento prevalente risulta essere l’istinto alla sopravvivenza, che supera anche la voglia di vendicare le vittime dell’11 settembre: l’importanza di tornare a casa, dalle proprie famiglie, ma anche in patria, prevale e guida ogni mossa bellica regalando alla compagine la salvezza.

Nonostante qualche piccolo sbrodolamento elogiativo, la pellicola non nasce per presentare una vittoria (la storia è stata taciuta per anni ed è arrivata al pubblico grazie al libro Horse Soldiers di Doug Stanton, su cui il film è basato), ma per sottolineare una battaglia ancora in essere, per raccontare quella che è la prima guerra americana figlia di un fanatismo religioso, il terrorismo islamico, che ancora rappresenta un problema che sconvolge tutta l’Europa e che ha la sua scintilla proprio negli attentati americani del 2001.