Nazareth, un padre e un figlio in auto. Il primo è uno stimato insegnante, il secondo lavora come architetto in Italia. I due attraversano in lungo e in largo la città per assolvere a un dovere sociale, che fa parte della tradizione della loro comunità, quello di consegnare a mano gli inviti al matrimonio di una figlia, da parte dei maschi della famiglia. «È una pratica non più tanto in uso fra i palestinesi della diaspora, molto seguita invece nella Palestina del Nord», spiega Annemarie Jacir, la regista di Wajib – Invito al matrimonio, in occasione della presentazione del film alla stampa italiana. Dopo Il sale di questo mare (2008) e Quando ti ho visto (2012) questo è il terzo film della prima regista donna palestinese ad aver diretto un lungometraggio. L’uscita nelle sale della pellicola, distribuita da Satine Film, è prevista per giovedì 19 aprile, ma in precedenza, il 10, il film apre il Middle East Now Festival di Firenze.
Reduce dal successo come Miglior film al Festival Internazionale del cinema di Dubai, dove i protagonisti Mohammed e Saleh Bakri, padre e figlio sullo schermo e nella vita, si sono aggiudicati pure il premio come Miglior Attore ex aequo, Wajib è anche la pellicola candidata all’Oscar come Miglior film straniero per la Palestina.
Ambientato nella comunità cristiana di Nazareth, Wajib, che tradotto in italiano significa “dovere”, mostra le difficoltà del vivere in una terra occupata e in perenne conflitto, dove l’idealismo si scontra con le difficoltà della vita quotidiana di chi ha scelto, nonostante tutto, di resistere, non abbandonando la propria terra. Shadi, il figlio, vive a Roma ed è tornato nella città natale per dare una mano al padre nel consegnare gli inviti di nozze della sorella Amal. Abu Shadi ha cresciuto i due figli da solo dopo che la moglie lo ha lasciato ed è emigrata in America con un altro uomo. Padre e figlio si vogliono bene, ma non condividono i rispettivi ideali, né tantomeno le scelte fatte. Mentre bussano alle porte di parenti e amici per consegnare gli inviti, le loro diverse visioni della vita affiorano e finiscono per scontrarsi. Abu Shadi è ormai rassegnato alla quotidiana ingiustizia del vivere in un territorio occupato, il figlio Shadi, invece, non riesce a tenere a freno la rabbia ed è pervaso da un insopprimibile bisogno di ribellione. Alla fine, però, in una iconica scena finale nella quale i due protagonisti sembrano ritrovarsi allo specchio, facendo gli stessi gesti misurati e cadenzati, con le luci della notte di Nazareth sullo sfondo, «padre e figlio si riconciliano», come sottolinea Annemarie Jacir, la quale anche in questo suo nuovo lavoro, come nei due precedenti, pone al centro della narrazione la contrapposizione fra due personaggi. «Sono le due parti di me», specifica, «una volta finito il film ho capito che questa cosa è presente in tutti i miei lavori e non ne avevo consapevolezza: in Quando ti ho visto madre e figlio, ancora prima, ne Il sale di questo mare, un uomo e una donna, e qui sono padre e figlio. Politicamente potrei essere vicino a uno, emotivamente all’altro. Amo entrambi i personaggi e non penso che uno abbia ragione o che l’altro si sbagli, entrambi hanno le loro storie».
Ma perché raccontare il rapporto tra un padre e un figlio? «Perché no», risponde la regista, «ero interessata a inserire due persone in un contesto intimo. Anche la macchina è vista dai due personaggi in modo diverso: per il figlio è una trappola, gli dà un senso di soffocamento, di prigione, per il padre rappresenta tutto, è l’auto di famiglia, di quando questa era unita, è tutto quello per cui ha lavorato e ora gli resta solo quella. Poi questo mi consentiva di passare da uno spazio privato a uno pubblico. Vengo da una famiglia dove le donne parlano molto, hanno il potere e il controllo di tutto. Gli uomini non dicono niente. Mio fratello e mio padre parlano poco. Volevo analizzare questo aspetto e mostrare come si dicano tante cose e come se ne tacciano altre importanti che non si riescono dire».
Come è stato per Saleh Bakri, attore già visto nel film Salvo di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza lavorare per la prima volta con il suo vero genitore? «In realtà in Italia ero già venuto dieci anni fa a teatro e qui ho girato anche un corto. Per quanto riguarda il recitare con mio padre non si tratta della prima volta in assoluto. Avevamo già girato insieme tre corti e anche un lungometraggio, dove però il mio ruolo era molto ridotto. Qui fra i due personaggi ci sono molte discussioni, ci sono differenze intellettuali e diversi punti di vista. Mio padre ed io, invece, non siamo così lontani, abbiamo le nostre tensioni ma non siamo come Abu Shadi e Shadi. È stata dura ma ci siamo divertiti, ci siamo goduti ogni singolo istante del film».
«Ho sempre lavorato con Saleh», aggiunge la regista, «ma con suo padre era la prima volta. Lui è una leggenda, sia come attore che come regista. Da subito ho pensato fosse il più adatto per i ruolo, ma ho esitato perché, pur essendo entrambi dei professionisti, è sempre difficile lavorare con qualcuno della tua famiglia, è difficile aprirsi. Mohammed è molto diverso dal personaggio, non è un uomo spezzato come quello del film, se entra in una sala è una figura carismatica. Nel film il figlio ha perso il rispetto nei confronti del padre, Saleh invece no».
La Palestina è in una situazione difficile da oltre cent’anni, ma il film non appesantisce la narrazione mostrandoci scene di scontri, di conflitti o di sopraffazioni. Queste restano sullo sfondo e arrivano allo spettatore attraverso il notiziario radiofonico oppure si possono leggere tra le righe delle conversazioni tra i due protagonisti o dalle parole di coloro che incontrano durante la consegna degli inviti. Qua e là, poi, s’intravedono segnali di tensione e di difficoltà (traffico, discussioni fra automobilisti, ecc.). Il messaggio politico quindi scorre lungo la pellicola ma senza invadenza. «Come sceneggiatrice e regista non mi accosto al cinema, a un film con un messaggio», specifica Annemarie, «ma con l’intenzione di raccontare una storia nel modo più onesto possibile. Piuttosto che un messaggio sono domande che rivolgo a me stessa, al mio Paese. È questo ciò che spero di fare. Comunque, in quanto alla storia e all’attualità politica, posso aggiungere che Nazareth oggi è la più grande città della Palestina storica quella che oggi è Israele. Costituita da palestinesi, al 40% cristiani al 60% musulmani. È una città piena di tensioni dal momento che i palestinesi hanno dovuto acquisire la cittadinanza israeliana dall’occupazione del 1948. Hanno la cittadinanza, ma sono cittadini di seconda classe, non avendo gli stessi diritti degli israeliani. Quindi c’è questa lotta continua da parte degli abitanti palestinesi per conquistarsi spazio, per avere uno spazio economico, dei posti di lavoro e soprattutto c’è la lotta per poter restare nella loro terra».
Riguardo al messaggio, Saleh Bakri dice: «Noi cerchiamo di raccontare una storia partendo da una specifica tradizione di Nazareth e del nord della Palestina e questa tradizione ci ha permesso di aprire una finestra su una società e su un rapporto tra un padre e figlio. E questa finestra ha permesso a me stesso, palestinese, di scoprire cose. Non faccio film per mandare messaggi politici, ma per andare a indagare la condizione umana, per cogliere le contraddizioni di un personaggio. Si tratta di complessità che riguardano l’essere umano. Io non penso al risultato finale, scelgo ruoli che mi offrano una sfida, una gamma di possibilità in quanto artista».
Girare il film in questi territori non sarà stato comunque facile… «Dal 1948 non si fa altro che costruire uno sull’altro», risponde Saleh, «la terra è confiscata, il terreno non c’è e quindi ci si sta tutti insieme, c’è un traffico enorme, c’è ignoranza, violenza e tensione, ma anche molto amore, rapporti umani, tradizioni e il desiderio di una vita migliore».
«Io ho girato in tutta la Palestina, in lungo e in largo, tranne a Betlemme, che è la città da cui provengo», dice Annemarie, «Nazareth ha delle difficoltà diverse, perché è una città dove c’è un insediamento chiamato Nazareth Elite, costruito negli anni ’50, dove nel film i due dovrebbero consegnare l’invito a Ronnie Avi, l’israeliano. Da lì ci hanno cacciato un paio di volte, perché hanno visto una troupe palestinese e i vicini si sono lamentati. È venuta pure la polizia, senza una ragione specifica, ma hanno sentito parlare in arabo e ci hanno mandato via. A Gaza o Ramallah l’occupazione militare la vedi, questa è diversa».
«Dicono che quando cresci la rabbia si riduca, mentre invece io sento il contrario. Man mano che cresco la rabbia cresce con me», conclude Bakri, «è un problema perché è pesante portare con te questa rabbia, ma è anche salutare. Se non ci fosse non sarebbe normale. Per fortuna assieme alla rabbia cresce anche l’amore».