(di Claudia D’Agnone) The Happy Prince, il biopic su Oscar Wilde scritto, diretto e interpretato da Rupert Everett, deve il suo titolo a una raccolta di storie per bambini dello stesso Wilde e si presenta subito in netto contrasto con il contenuto della pellicola.

Luce spesso soffusa, luoghi chiusi, a volte asfittici, per raccontarci gli ultimi tre anni di uno scrittore che non ha bisogno di presentazioni, ma di cui conosciamo, spesso, solo la magnificenza delle opere.

Rupert Everett, grande cultore dello scrittore irlandese, si è cimentato con le sue opere sia al cinema che in teatro, ma ha scelto di raccontare, nella sua prima prova da regista, un Oscar Wilde diverso e ormai alla fine dei suoi giorni, ancora fine esteta, eccentrico, a tratti beffardo, ma anche malinconico, dilaniato dai rimpianti mentre riflette, negli ultimi scampoli della sua esistenza, sul male inflitto alla moglie e ai figli al seguito del processo che li gettò, irrimediabilmente, nello scandalo.

Wilde, infatti, fu condannato per il reato di sodomia e costretto a due anni di carcere e lavori forzati. Fu lui stesso, tracotante e superbo all’apice della sua carriera, a sporgere denuncia nei confronti di Lord Queensberry, padre dell’amato Alfred Douglas, detto Bosie, reo di averlo deriso pubblicamente per la sua natura. L’omosessualità, ai tempi, era un reato perseguiibile e, vittima del suo stesso delirio d’onnipotenza, Wilde vi si condannò.

La regia di Everett, dichiaratamente ispirata alla ricercatezza di Luchino Visconti e, a tratti, al movimento di macchina nervoso dei fratelli Dardenne, ci mostra l’uomo ostracizzato dalla società, che vaga tra i vicoli di una splendente Parigi negli anni della Belle Époque, elemosinando da bere, decadente, ma mai patetico, che fino all’ultimo giorno si impomaterà le gote e tenterà di godersi quella vita che lo aveva portato alle stelle per poi calpestarlo.

È interessante e magistralmente rappresentato il rapporto di Oscar Wilde con Dio, una sorta di “flirt”, come il regista stesso lo ha definito, un avvicinamento che diventa profondo negli anni della prigionia.

E anche il richiamo visivo, negli ultimi attimi di vita, sembra ricordare l’espiazione di Cristo: se quella era salvifica per l’umanità, questa libera finalmente l’autore dai preconcetti dei benpensanti che a poco a poco lo avevano abbandonato. In punto di morte, infatti, gli resteranno accanto solo il fedele amico Reggie Turner (Colin Firth) e Robbie Ross (Edwin Thomas), che per amore di Oscar si accollerà i suoi debiti e si batterà per riabilitarne il nome.

Oltre a essersi ispirato al cinema di Visconti (non è difficile ravvedere in Bosie un po’ del Tadzio di Morte a Venezia), Everett si è servito di moltissime maestranze italiane soprattutto per quel che concerne i costumi e il trucco, che ritiene i più curati del cinema mondiale.

La riflessione sull’esilio parigino di uno dei maggiori esponenti della letteratura mondiale è, anche, un evidente pretesto per mostrare, senza urlare slogan, cosa l’omofobia abbia prodotto nei secoli. Oscar Wilde non ha mai rinunciato, nonostante la condanna sociale, a una vita godereccia, era un uomo e non un santo e nel film ogni istante, anche il più lascivo, è stato riprodotto.

Il film, nei cinema da giovedì 12 aprile, ci apre uno scorcio sul tratto malinconico della vita di un artista dalle capacità letterarie indiscusse, che non diventa icona, ma potrebbe essere monito.