(di Claudia D’Agnone) Tonya, il biopic sulla vita tragicomica della pattinatrice americana Tonya Harding (interpretata da Margot Robbie), candidato a tre premi Oscar e vincitore di una statuetta (all’attrice non protagonista Allison Janney), sarà al cinema dal 29 marzo.

La pellicola si apre con un cartello che ricorda l’ispirazione a fatti reali: “Tratto da interviste assolutamente vere, totalmente contradditorie e prive di qualsiasi ironia con Tonya Harding e Jeff Gillooly”. Una premessa quasi necessaria, perché il film, abilmente diretto da Craig Gillespie, sembra, in un primo momento, un insieme di personaggi caricaturali, troppo borderline per essere veri. La storia di Tonya, infatti, non è quella di una principessa delle lame, ma di una ragazza cresciuta in un ambiente familiare parco di affetto e con un marito problematico e violento, è il ritratto di una ragazza fragile che pattina con forza cercando l’approvazione di quel pubblico americano che “vuole qualcuno da amare e qualcuno da odiare. E vuole che sia facile.”

Il caso Harding fu uno dei maggiori scandali sportivi americani degli anni ’90, che costò a Tonya la carriera (fu bandita a vita dalla Federazione Americana) e la reputazione. Nel 1994, alla vigilia dei campionati nazionali americani di pattinaggio, la principale rivale di Tonya Harding, Nancy Kerrigan, viene colpita violentemente ad un ginocchio e costretta a rinunciare al torneo, regalando quindi il titolo a Tonya. Le indagini dell’FBI condussero al marito della Harding, Jeff Gillooly (Sebastian Stan), mandate effettivo dell’azione, e a un amico della coppia. La Harding si dichiarò totalmente estranea ai fatti, così da poter prendere parte alle Olimpiadi invernali di Lillehammer, in cui un incidente con un laccio la spinse, piangendo, a chiedere e ottenere clemenza al banco della giuria, ancora una volta dimostrando un’emotività dirompente lontana dal mondo del pattinaggio di figura. Accusata, infine, di essere informata sui fatti, Tonya Harding vide la sua carriera sgretolarsi a soli 23 anni e con essa la possibilità di elevarsi dal mondo depravato da cui proveniva.

Una straordinaria Margot Robbie, finalmente libera dall’“handicap” della sua stessa bellezza che la relegava a ruoli da femme fatale, riesce a dar vita a Tonya, a raccontare la sua storia senza eccessi drammatici o grotteschi, a mostrarci la forza dirompente dell’atleta (la prima, in America, a eseguire un triplo axel) e la fragilità della ragazza, ancora troppo bambina, che cerca l’affetto del mondo, ma non vuole piegarsi ai canoni della perfetta pattinatrice americana, tecnicamente ineccepibile e portatrice di valori così distanti dalla realtà disfunzionale da cui lei proveniva. Nel film seguiamo Tonya sin da bambina, quando inizia a muovere i primi passi sul ghiaccio, seguita da una madre crudele e soffocante, magistralmente interpretata da Allison Janney, e successivamente soggiogata dall’amore per un uomo manesco che ne decreterà la fine artistica.

L’intento evidente del film, senza captatio benevolentiae alcuna, è quello di umanizzare un personaggio messo alla gogna già solo perché irrispettoso di canoni estetici precisi, perché meno etereo eppure dirompente, definitivamente segnato da una condanna (reale o meno non sta a noi giudicarlo) per fatti orribili ai danni di quella che, dalla stessa Harding, è stata definita un’amica. L’idea narrativa di dar spazio alle interviste realmente avvenute con i protagonisti e poi girate dagli attori ci porta continuamente dentro e fuori dalla storia, con un ritmo incalzante, dando vita anche alla maggior parte dei momenti comici di una pellicola dal sapore agrodolce, come la vita di chi, dovendo lottare con i denti ha toccato l’apice ed è caduta nel baratro.