La forza delle donne è un documentario nato dall’incontro fra la passione di un’esperta giornalista d’inchiesta, Laura Aprati, e un giovane giornalista e regista, Marco Bova. Due differenti generazioni, una identica passione per un viaggio in mezzo alle donne di un mondo lontano eppure tanto vicino. Donne che migrano e donne che, più o meno volentieri, le accolgono, ma comunque le accolgono. Donne forti, energiche al di là degli stereotipi.

Il documentario, realizzato anche grazie al supporto di Focsiv, parte in questi giorni per un tour nel quale la visione vuole essere l’occasione per riprodurre idealmente questa opportunità: quella dell’incontro fra realtà differenti eppure vicine. Le tappe sono in costante aggiornamento su www.laforzadelledonne.com.

Noi abbiamo voluto far raccontare questa esperienza direttamente ai suoi protagonisti, ripercorrendo con loro i momenti cardine di questa avventura dal differente angolo visuale di due personalità e generazioni a confronto.

LA PARTENZA

Laura: «La partenza è stata più complessa del viaggio in sé. Neve a Istanbul, aeroporto chiuso, ore di attesa e poi imbarcati per Amman, Giordania. Sette ore di scalo tra sauditi che giravano con i falchi al braccio e il famoso gruppo della “Turkish”: Jassin (Nazioni Unite), Alessandra (Ong danese), Giulia (WFP), Luciano (TREVI Spa) e noi due Marco (il millennial) e Laura (il dinosauro). In giro per l’aeroporto di Amman tra caffè e poltrone vibranti. E finalmente l’8 gennaio alle 3 di mattina siamo arrivati a Erbil, Kurdistan iracheno.

Marco: «Sì, è vero: il primo arrivo a Erbil mi ricorda neve e freddo. Aerei fermi e notizie veloci. Anche perché, per me che parto dalla Sicilia, significa sempre un pezzo di viaggio in più. Alla fine? Quella che mi ricordo è una traversata continentale di quasi venti ore passata a smontare ogni stereotipo sul Medio Oriente. I ritardi aeroportuali? Sono serviti a conoscere delle belle persone e a scroccare una notte all’hotel Hilton».

L’APPROCCIO ALLA GUERRA

Laura: «La guerra la senti subito e subito ti entra dentro. Dai troppi soldati che girano, dalla massa di sfollati accatastati in palazzi abbandonati e senza servizi o nei campi dove c’è una parvenza di vita quotidiana. La guerra la senti sulla strada che ti porta al fronte e ogni check point che superi è un passo verso di lei. La guerra la senti con i bombardieri che ti passano sulla testa tra le rovine di una città».

Marco: «Quello che mi ha colpito è l’abitudine, l’abitudine alla guerra. L’Iraq mi è sembrato un Paese fin troppo abituato alla guerra. Le mimetiche nei bazar, accessibili a chiunque, e i caccia sui cieli erano costanti. Ho guardato la guerra attraverso l’assuefazione della gente che viveva a poche decine di chilometri dal fronte. Entrati a Mosul, di fianco i cecchini anti Isis, al primo sparo volo via per l’onda d’urto. La guerra è come una slavina e da gennaio a giugno ritroviamo una città diversa. Eravamo dentro il museo di Mosul la mattina prima che l’Isis la riconquistasse a colpi di fucile. Due giorni dopo, nelle stesse zone, una collega francese rimane uccisa. Noi eravamo, già in Libano ma il silenzio è piombato su di noi».

KURDISTAN

Laura: «Vivere nel Kurdistan iracheno aiuta a capire le divisioni tra le etnie. I doppi check point curdi e iracheni, i peshmerga e i militari di Baghdad. Ma il Kurdistan non è solo questo: è l’enclave cattolica di Qaraqosh, il quartiere cristiano di Erbil, Ankawa. Il cibo che è l’insieme delle moltitudini di questo territorio. Dagli antichi assiri, al pane arabo. I ristoranti rigorosamente con una gabbia per gli uccelli (spesso con colombi). Siamo in fondo all’inizio della piana di Ninive e della Mesopotomia (e pensare che tutte le volte che me ne parlavo i professori mi sembrava quasi un territorio frutto di fantasia storica!)».

Marco: «Il Kurdistan è un vero e proprio Stato nello Stato e per me che vengo dalla Sicilia è stato facile capirlo. Sui riferimenti storici le orecchie erano tutte per Laura, ma se a Erbil la convivenza è fisiologica, a Kirkuk (una delle città contese tra Iraq e Kurdistan) la mescolanza tra culture è palpabile. A volte macchinosa. Non tutti parlano le stesse lingue: curdo, arabo e iracheno sono molto diverse tra loro. Ed è lì che in occasione del referendum per l’indipendenza sono emerse le spaccature più profonde».