(di Barbara Bianchi) Meglio il film o il libro? Meglio uno spettacolo teatrale o la sua versione cinematografica? Ha senso una trasposizione teatrale di un film di successo? Sono domande vecchie come il mondo che tornano attuali ogni volta che qualcuno si avventuri in un qualche remake di un grande successo del passato. Domande che sorgono anche di fronte a Febbre da cavallo, fresco di messa in scena al Sistina di Roma, per la regia di Claudio Insegno e la direzione artistica di Enrico Brignano.
Uno spettacolo sicuramente molto godibile, non c’è dubbio. Animato della vitalità di un cast che sa stare sul palco e lo fa con passione. Malgrado le evidenti differenze nella formazione artistica e professionale. Per cui, se il Mandrake nell’interpretazione di Patrizio Cigliano ha il pregio di non voler scimmiottare Proietti e porta con sé l’indubbia profondità di una solida formazione teatrale; d’altra parte Andrea Perroni imita chiaramente e smaccatamente Montesano e lo fa con gusto, pur non spiccando in originalità. Così come decisamente garbato è il Felice di Tiziano Caputo. Quanto a Sara Zanier, la sua storia televisiva è il suo marchio. Insomma: la sensazione è che se mettiamo insieme uno stile teatrale, uno cabarettistico e uno televisivo è un po’ come mettere sullo stesso palco un milanese, un torinese e un sudtirolese. Saranno tutti del Nord Italia ma parlano lingue molto differenti fra loro. Se poi la riduzione teatrale insegue ossessivamente la struttura della versione cinematografica, semplicemente immergendola nel brodo, peraltro curatissimo grazie a musica (di Fabio Frizzi) e ballerini, soprattutto se il film in questione è a sketch, ne va da sé che lo spettacolo acquisterà in farraginosità piuttosto che in scioltezza.
La conclusione: lasciamo alla televisione fare la televisione, al cinema il cinema e al teatro il teatro. Se poi il parametro di una produzione è solo l’inseguimento ossessivo dell’audience, un adagio purtroppo piuttosto ricorrente di questi tempi, allora diventa palese che stiamo scivolando dall’arte all’intrattenimento. E la storia ci insegna che difficilmente i prodotti di mero intrattenimento hanno avuto vita longeva. Ma soprattutto che uno spettacolo, qualsivoglia mezzo utilizzi, riscuote il proprio successo quando si dimentica di inseguire il pubblico e si lascia andare a essere se stesso. È allora che fa ridere ed entra in sintonia con la gente. Solo allora.