Quello con Andrzej Wajda era uno degli Incontri ravvicinati più attesi dell’undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, invece il destino ha voluto che li regista polacco si spegnesse a Varsavia, all’età di 90 anni, la sera del 9 ottobre, proprio qualche giorno prima della manifestazione che intendeva celebrare il suo cinema con la sua presenza sul palco dell’Auditorium.

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Ora la proiezione della sua ultima fatica, “Afterimage” (Powidoki), nella selezione ufficiale della rassegna romana, si trasforma in un commosso omaggio a uno dei più grandi registi del cinema mondiale.

Quella di Wajda era una voce imprescindibile della cinematografia dell’Est Europa nel periodo del disgelo seguito alla morte di Stalin. Attraverso un itinerario artistico iniziato sessanta anni fa, lungo il quale ha ricevuto un Oscar Onorario nel 2000 e un Orso d’Oro alla carriera sei anni più tardi, Wajda ha costruito una filmografia che è arrivata a fondersi con la storia moderna della Polonia, riflettendo costantemente sul rapporto tra libertà ed espressione artistica.

Molti i suoi capolavori: da “Cenere e Diamanti” a “Danton” e “L’uomo di ferro”, Palma d’Oro a Cannes nel 1981, ai quali si aggiungono “La terra della grande promessa”, “Le signorine di Wilko” e “Katyń”, nominati all’Oscar per il miglior film straniero.

“Afterimage” parla del rapporto fra dittatura e arte, attraverso la tragica sorte di Władysław Strzemiński, una figura eroica dell’arte moderna. È il più recente tassello di una produzione artistica che può essere letta come un gigantesco e coerente affresco, in cui elementi quali l’inquietudine esistenziale e i turbamenti di un popolo si sono trasformati in strumento per la comprensione della realtà sociale e dell’analisi storica.

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